In libreria: Neve, di Ginevra Bompiani
Il nuovo romanzo di una protagonista della cultura e della letteratura italiana.
Un romanzo di donne, sul coraggio, il senso del fare le cose insieme, la solitudine, i legami, l’affetto, la generosità, le età della vita.
Durante una memorabile nevicata che sommerge Roma, Lea va a farsi cambiare antidepressivi e sonniferi da una dottoressa, che le dice: “Se non li prendesse, sarebbe molto infelice, stanca, depressa, ma certamente più lucida”. Da queste parole Lea è condotta a ripensare ansiosamente la sua
vita, a interrogarsi, come forse prima o poi facciamo tutti, sulla mancanza di allegria e di coraggio. Lea si dà due giorni per rispondersi (prendere i sonniferi o sopportare l’insonnia? Tristezza o antidepressivo?), i due giorni in cui cade la neve e Lea si rifugia a casa della sorella. E mentre si confronta col silenzio della sorella, le torna in mente l’ultima cosa coraggiosa che ha fatto: un laboratorio di scarpe e cappelli. La novella procede ora su due piani, la sarabanda dell’impresa lavorativa, coi suoi attori stravaganti, i suoi improbabili amori, i suoi passi e i suoi voli, e i giorni della neve, in cui sprofondano anche le parole.
Di che coraggio ha bisogno l’allegria?
E la tristezza, cos’è?
Neve comincia così:
“È così, me lo dicono spesso gli artisti. Se prendono l’antidepressivo non riescono più a lavorare. Sente meno le emozioni? Com’è il suo umore? È certo che i sonniferi riducono la memoria, ma non per sempre, non è un effetto irreversibile. Insomma, se lei non prendesse né antidepressivi né sonniferi sarebbe molto infelice, stanca, depressa, ma certamente più lucida.”
La paziente si alza, stringe la mano e se ne va. Fuori nevica. Grossa, pesante, cade una neve che scende a dare alle cose una finta leggerezza. Si deve attaccare al muro per non cadere. Perché non ha portato il bastone? Né gli occhiali? Sa di avere due cataratte, ma non si decide a toglierle per pigrizia. E ora deve traversare una città infinita senza scivolare. La neve aumenta invece di placarsi come ci si aspetta sempre dalle intemperie. E lei avrebbe tutto il tempo di pensare, se non fosse così occupata a tenersi in piedi. “La trovo triste,” ha detto la dottoressa, con la disinvoltura dei medici, “posso dirglielo? Mi sembra che lei porti un peso… C’è qualche ragione per questo?”
È la domanda che si ripete con irritazione tornando a casa. Perché sembra triste? Ma lo è? E all’improvviso la risposta le appare, lucida, semplice, irrefutabile: è triste perché manca di coraggio.
In quel momento sentì un fortissimo stridore, stringere di freni, colpo di ferraglia, grido, uno solo. Una macchina stava tutta sbieca sulla strada e una moto girava freneticamente le ruote nell’aria. Un istante di silenzio e immobilità assoluta e poi si precipitò a vedere. Il corpo del ragazzo era riverso con la testa buttata sul marciapiede. La moto gli poggiava sulla gamba e il sangue stava sporcandolo come un fango. Perché c’era la neve, poltiglia, sanguiglia, e il suo corpo imbacuccato era già tutto sconcio: una mano girata in dentro con l’orologio grosso rotto, il casco di traverso, uno sbafo di sangue proprio sopra l’occhio, come quei fantaccini che vedi partire per la guerra al suono della fanfara, sprimacciati, pimpanti, e poi rivedi la sera nella mota, agonizzanti e sporchi.
Il corpo era sporco, questo soprattutto, sporco. Sporco e osceno. Intorno si formava una piccola folla, uno inginocchiato a toccargli la gola, uno col telefonino all’orecchio. Intanto, come fantasmi, uscivano dalla macchina i due investitori, discolpandosi con gli astanti prima ancora di aver visto il corpo. Lei avrebbe voluto essere la persona in ginocchio che toccava la giugulare, o quella che chiamava l’ambulanza, ma per quanto avesse creduto di correre, era stata troppo lenta, stava nel coro fra le donne che commentavano in romanesco, perfettamente inutile e incapace di allontanarsi. Se avesse avuto la macchina avrebbe potuto offrirsi di accompagnarlo all’ospedale, ma comunque l’ambulanza era meglio. Si sentiva male, come se la tristezza fosse precipitata in dolore puro, e solo ora si accorse che quell’unico grido l’aveva lanciato lei.
E poi stava per svenire. Sempre la solita reazione alla vista del sangue. Bel modo di cavarsela! Una volta che aveva accompagnato un amico al pronto soccorso perché si era tagliato una mano, e lei aspettava fuori dalla porta raggomitolata che finissero di medicarlo, si era svegliata con l’amico che la sollevava col suo braccio fasciato per metterla sul lettino da cui lo avevano fatto scendere per farle posto. Così ora, prima di svenire in mezzo alla gente, si allontanò, inutile come si era avvicinata, e riprese la strada di casa, fermandosi al primo bar per bere un gin tonic.
Prima di andar via sentì lo strillo a due toni dell’ambulanza. Riprese la strada nella neve che nel frattempo si era un poco calmata e cercò di riprendere i pensieri interrotti. Quando aveva cominciato a mancare di coraggio? (…)
Ginevra Bompiani, protagonista della scena letteraria italiana, scrittrice, studiosa e traduttrice di letteratura e filosofia, nel 2002 ha fondato con Roberta Einaudi la casa editrice nottetempo.
et al./edizioni ha riproposto i suoi saggi L’attesa (2011) e Lo spazio narrante – Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath (2012), e il romanzo L’età dell’argento (2012). Ad aprile riproporrà la raccolta di racconti L’incantato.
Tra le altre sue opere narrative ricordiamo: Le specie del sonno (Franco Maria Ricci 1975), Mondanità (La Tartaruga 1980), L’orso maggiore (Anabasi 1994, di prossima uscita presso et al./edizioni), L’amorosa avventura di una pelliccia e di un’armatura (Sellerio 2000) e La stazione termale (Sellerio 2012).