Recensione: Uno chalet tutto per me, di Elizabeth von Arnim
Lo ammetto: mi piaceva l’immagine in copertina, che in qualche modo mi ricordava Der Wanderer über dem Nebelmeer, ovvero Il viandante sul mare di nebbia dipinto da Caspar David Friedrich. E mi piaceva anche il titolo, che mi suggeriva l’idea di un periodo un po’ raccolto tra il proprio sé e i propri se. Uno chalet tutto per me è uno dei libri che ho acquistato al Salone del Libro di Torino per impeto. Lo ha scritto Elizabeth von Arnim e tradotto Simona Garavelli per i tipi di Bollati Boringhieri, ma è stato pubblicato per la prima volta quasi un secolo fa, nel 1920.
La storia si sviluppa proprio in quegli anni post prima guerra mondiale, quando il ricordo del dolore sofferto, da uomini e paesi, era ancora frutto di una ferita aperta, e la propria nazionalità poteva invitare all’amicizia o all’odio anche prima di conoscere un altro essere umano. La protagonista della storia, scritta sotto forma di diario, è una ragazza inglese che, tentando di ricostruire se stessa, cerca un po’ di pace rifugiandosi nel suo chalet tra le Alpi svizzere, lontano dalla confusione di Londra e del mondo tutto. Dapprima il suo è un vero e proprio percorso attraverso le cortine del dolore, reso più lieve dall’aria fresca dei monti e dall’assenza di compagnia alcuna se non dagli Antoine, una coppia di custodi, ma ben presto la sua oasi di solitudine si anima grazie all’arrivo di due donne che cercano un’estemporanea sosta lungo il cammino verso valle. Tuttavia una parola tira l’altra, e le tre si ritrovano a condividere lo chalet per un periodo ben più lungo e tra segreti, silenzi e reticenze, iniziano a porre le basi di una profonda amicizia.
A tratti autobiografico e non certo privo di una solida dose di ironia, il romanzo di Elizabeth von Arnim conduce il lettore in un’altra epoca, mostrandola attraverso gli occhi indagatori di una ragazza animata da un forte desiderio di vivere, conoscere e ritrovare, pur con tanta sofferenza patita, una pace e una speranza nuove nel futuro. Le altre protagoniste del racconto, Dolly e Kitty, sono invece due sorelle dalle anime molto diverse: la prima è dolce e a tratti ingenua, pronta a compiacere il prossimo senza remore e limiti; la seconda è premurosa e ansiosa, vivendo nella costante preoccupazione di salvare la sorella proprio da quella leggerezza che tanti problemi le ha causato in passato.
La splendida prosa dell’autrice, resa in italiano dalla bravura di Simona Garavelli, non fa che impreziosire e rendere ancora più piacevole la lettura e la vista di quel panorama montano che, volenti o nolenti, non potrete far a meno di immaginare nitido tra le righe.
Lascio un breve passo tratto dal libro, scelto non per svelare il rapporto tra le tre donne, né le suggestive immagini dei luoghi o le riflessioni che ne scaturiscono, ma la sottile ironia tipica della protagonista che, silenziosa, permea tutto il romanzo.
L’unico elemento cui non sono riuscita ad arrivare attraverso il ragionamento deduttivo è stato il maiale. Al riguardo il coraggio di Antoine è venuto meno. L’ammonimento da me ripetuto, Surtout pas de porc, dev’essergli riecheggiato nelle orecchie con troppa perentorietà.
Che incredibile dimostrazione di intelligenza. Sì, perché ci vuole intelligenza per disubbidire agli ordini in modo coscienzioso e al momento giusto. E io, in tutti questi anni, totalmente inconsapevole, e di conseguenza neppure minimamente preoccupata!
Proprio in quel momento Antoine, annaffiatoio alla mano, si trovava ad attraversare il giardinetto.
«Antoine» l’ho chiamato.
«Madame» mi ha risposto lui, fermandosi e togliendosi il berretto.
«Questo uovo…» ho cominciato indicando il guscio; l’ho detto in francese, ma preferisco non mettere per iscritto il mio francese.
«Ah… madame a vu les poules».
«Questo burro…»
«Ah… madame a visité la vache»
«E il maiale…?» ho chiesto titubante. «C’è anche un maiale?»
«Si madame veut descendre à la cave»
«Non dirmi che tieni un maiale in cantina!» ho esclamato.
«Comme jambon» ha risposto Antoine calmo e tranquillo, senza traccia di emozione.
Di lì a poco un’orgogliosa M.me Antoine, i cui sentimenti sono meno invisibili di quelli del marito, mi mostrava, appeso a una serie di ganci affissi al soffitto della cantina, ciò che un tempo era stato un maiale. Svariati maiali; per quanto lei ne parlasse come se non ce ne fosse mai stato più d’uno. Chissà, forse ce n’era stato davvero soltanto uno, ma in tal caso doveva avere moltissime zampe.
«Un porc centipède» ho commentato pensosa fissando la foresta di prosciutti.
Lei è scivolata sul ghiaccio sottile del mio commento, lanciandosi in una garrula descrizione di come, appena firmato l’armistizio, lei e Antoine si fossero gettati all’istante sul maiale uccidendolo – sempre maiale, al singolare – aspettandosi, dopo il felice eventi, l’arrivo di Madame da un momento all’altro, ben consapevoli che un porc vivant porrait déranger madame, mais que mort il ne fait rien à personne que de plaisir. E ha sollevato lo sguardo a sua volta, uno sguardo pieno di affetto e orgoglio.
A questo punto non mi è rimasto altro da fare che regolare tutte queste pendenze con un garbato, riconoscente pagamento. Cosa che ho fatto oggi stesso, quando Antoine mi ha presentato il conto accompagnato da complessi calcoli e deduzioni dei costi di latte, burro e uova che lui e M.me Antoine avrebbero altrimenti dovuto acquistare negli scorsi anni.
Non ho guardato troppo da vicino quanto mi è dovuto costare il maiale, essendo il suo prezzo, mentre il mio occhio vi si posava sopra fugace, chiaramente il prezzo di qualcosa di plurale; ho preferito non indugiare. Da sempre io e Antoine ci comportiamo, tra noi, da gentiluomini.
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