Recensione: L’età dell’innocenza, di Edith Wharton
Interno. Notte. Festa in società.
Un uomo dal portamento distinto si aggira tra i rappresentanti della sua classe sociale. Ha uno sguardo distante, un malessere di vivere crescente ma, al contempo, sa che il suo posto nel mondo è lì, il suo ruolo nella società è quello di interpretare se stesso, in quella città e con quel futuro davanti.
Esterno. Giorno. Rhode Island. Una banchina sul mare.
Lo stesso uomo fissa da lontano una donna di spalle. Sa che ogni desiderio assopito potrebbe tornare a galla grazie a lei e cambiargli la vita, per sempre. Ma forse il cambiamento è già in atto, checchè costui lo voglia, e da quel giorno in poi non sarà mai più lo stesso.
Basterebbero queste due sole immagini per trascinare il lettore nel mondo di Newland Archer, il protagonista portato in scena dal premio Pulitzer Edith Wharton ne L’età dell’innocenza. E basterebbe immergersi nella lettura della prima pagina del romanzo per comprendere che si sta per assistere a una storia più grande della mera vicenda amorosa: l’autrice conduce il lettore alla scoperta della New York “bene” di fine Ottocento, un microcosmo in crisi, fondato sui farraginosi pilastri delle “nobili abitudini”, governato da regole di costume ferree ma internamente ipocrita e zotico:
Una delle più sagaci intuizioni del grande proprietario di carrozze da nolo era stata quella di aver capito al volo che gli americani vogliono filarsela dai luoghi di divertimento ancora più alla svelta di quanto desiderino andarci.
Tutta la finzione del mondo del quale lui stesso fa parte rimarrebbe un mistero per Newland Archer, giovane avvocato appena fidanzatosi con la graziosa May Mingott, se non fosse che a portare scompiglio nella sua esistenza e nella società newyorkese giungerà Ellen Olenska, cugina di May, donna indipendente, forte, moderna e… in fuga dal marito.
Newland Archer sarà costretto a riconsiderare le sue certezze di classe, a scontrarsi con se stesso e a mettere in dubbio il suo futuro.
Un romanzo mai abbastanza conosciuto dal grande pubblico e al quale ha reso omaggio anche Martin Scorsese, con l’omonima, accuratissima trasposizione cinematografica del 1993, interpretata da Daniel Day-Lewis, Michelle Pfeiffer e Winona Ryder.
Un’opera dalla prepotente carica moderna nella quale i veri protagonisti della vicenda sono i desideri umani, le loro costrizioni nella società in cui si vive e la lotta per affermare se stessi e i proprio diritti, anche all’amore:
Ora, mentre riesaminava il suo passato, si rendeva conto di quanto profondo fosse il solco in cui si era lasciato cadere. L’aspetto peggiore del fare il proprio dovere consisteva evidentemente nel fatto che rendeva incapaci di fare qualcosa di diverso.