Ritratto di madre, in cornice americana, di Miklós Vajda
Vorrei proporvi un esercizio: chiudete gli occhi e tentate di rievocare quante più immagini possibili di vostra madre. Abiti, gesti, parole, luoghi. Quale forma riuscite a darle? Quali colori e ricordi sono più nitidi? In quali frangenti la ricordate?
Tempo fa ero rimasta affascinata dal rigore dimostrato da Paul Auster in Notizie dall’interno (Einaudi, traduzione di Monica Pareschi), nel quale l’autore ricostruiva gli anni della propria crescita. Stavolta lo stesso fascino l’ho provato per Ritratto di madre, in cornice americana, romanzo scritto da Miklós Vajda (Voland, traduzione di Andrea Rényi) dedicato alla ricostruzione della figura della propria madre e in cui il rigore si esplica soprattutto negli aspetti emotivo e affettivi, indissolubilmente intrecciati alla storia ungherese del secolo scorso.
…immersa com’è nell’universo ormai non esiste più, ciò malgrado posso stare con lei perché vive dentro di me, e l’unica possibilità di avere ancora una relazione è scriverne facendola a pezzi per poi ricostruirla interrogandola, confessandole, comprendendola e mostrandola nei limiti delle mie capacità.
La madre di Vajda si chiama Judit Csernovics, è una donna di rara bellezza e di famiglia aristocratica e, in virtù del suo rango, la sua vita è caratterizzata da amicizie importanti con membri dell’élite politica e artistica del suo tempo. Suo marito, Ӧdön Vajda, è avvocato e consigliere della gestione patrimoniale della casata degli Asburgo. Tuttavia, per via della seconda guerra mondiale e dell’ascesa del Partito comunista nel 1947, la situazione politica dell’Ungheria muta radicalmente, al punto tale che in un rapporto del maggio 1950 la stessa Judit viene descritta così: “Per sua origine, per ceto e opinione politica è indiscutibilmente un elemento nemico”. Dopo due duri periodi di detenzione a cui riesce a sfuggire grazie alle sue conoscenze, Judit sceglie la cornice americana, un porto sicuro dove poter sopravvivere e ricostruirsi una vita. Miklós rimane invece in Ungheria, deciso a non abbandonare il proprio paese nonostante riconosca che, per il particolare clima di quegli anni, si tratti di una “soffocante prigionia delle bugie e degli odiati compromessi”.
L’attenzione non viene mai distolta da ciò che all’autore preme davvero raccontare, ovvero della madre, il cui ritratto diventa necessariamente traduzione del rapporto tra loro, sintomo questo di un filtro soggettivo a cui nessuno è in grado di opporsi: “Provo a ricostruirla con le minuscole tessere raccolte, ma ultimamente qualsiasi cosa lei faccia sembra che la faccia, o meglio, che l’abbia fatta, solo e sempre a me, per me, a causa mia, per mio tramite, con me o con il mio aiuto”.
Eppure la cornice storica non può essere dimenticata, perché – per quanto sia talvolta nostra abitudine vivere dell’oggi e ritenerla superflua – è sempre l’elemento che primo fra tutti influenza le nostre vite. Per questo assume una certa rilevanza l’origine ebrea dell’autore da parte di padre quando le leggi razziali cominciano ad essere applicate in Ungheria: “L’uomo che ci interrogò era di Arad come mia madre; fu abbastanza benevolo e comunicò a mia madre che poteva andare via se voleva, ma io dovevo essere sottoposto a un esame antropologico per verificare se avevo più sangue ebreo o cattolico. L’esame andava eseguito al quartier generale di via Andrássy 60, in presenza di un medico. Mia madre decise di rimanere”.
La narrazione di Vajda si fa forte di uno stile esatto che non lascia spazio al superfluo, ma ciononostante si mantiene intensa, a tratti commovente. Il risultato è un libro che, per gli aspetti umani e storici di cui è testimone, consiglio vivamente di leggere.