Il giorno in cui mi capitò di morire, di Chiara Tangredi
Un paradosso, questa l’esistenza. Che si muove su un filo che arrotoliamo e disciogliamo a piacimento, per pensare e per non pensare, ché l’unica certezza della nostra vita è quella che non vorremmo sapere…
Il giorno in cui mi capitò di morire (Adiaphora Edizioni) di Chiara Tangredi custodisce le verità amarissime della vita e della morte, e nello svolgersi repentino del tempo teatrale dispiega l’esistenza porgendocela alla luce del cinismo realistico dei personaggi. Ora ne hai pietà, ora ti fanno ribrezzo, ora ti commuovono, ora ti sorprendono, ora ti fanno sorridere… come potrebbero essere più vivi di così?
È la morte di un bambino di nove anni il fulcro intorno al quale ruota non una vicenda ma una quotidianità riconoscibile, quasi stanca e rassegnata, che somiglia molto realisticamente alla nostra. Potremmo racchiudere in un bel gioco di parole questa ironia da opera non buffa ma sarcastica, ombrata dall’assurdo di quel teatro nel quale ricerchiamo risposte che non siano troppo complicate o stridenti. Vaga su tutti la mera illusione di legarsi a una permanenza che è caducità e perciò tutto destinato a passare dalle nostre mani alle vanghe becchine di loschi figuri che si dividono malloppi di passaggio, in un non senso che un senso lo avrebbe.
Il senso della vita sa essere tristissimo, e per questo le bare servono più ai vivi che ai morti: perché insegnino agli uomini non solo a fingere di cercare, ma a trovare un significato reale all’esistenza.
…Non era previsto che morissi. Mi sono perso la scuola. Anche se, stranamente, quel giorno ci sarei voluto andare. Avrei fatto qualsiasi cosa. Tranne morire.
Commuove e lascia lievi sorrisi di amarissimo sapore, questo spaccato teatrale da immaginare in scena. Nel frattempo porgiamo qualche domanda all’autrice, Chiara Tangredi, beneventana classe ’89 che ha già pubblicato una prima silloge lirica (Sono come il coccodrillo: piango sul latte versato) e partecipato a diverse antologie, tra cui Il Federiciano 2014. Libro Verde con la poesia Non mi lasciare prima dei 100 anni e Nanoracconti, a cura di Pietro Damiano (Homo Scrivens Edizioni). Il giorno i cui mi capitò di morire è il suo primo testo teatrale. Ed è un libro da leggere, perché è come osservare la vita da una finestra dischiusa sulle vite degli altri, come se non fosse poi la finestra stessa alla quale affacciandoci apparteniamo…
Chi è Chiara? Scrittura a parte, come si racconterebbe?
Chiara è anche scrittura. La scrittura non la si può mettere da parte. Avete presente quelle persone perfette, da invidiare? Bene, io non c’entro nulla. Sono una persona come tutte le altre…
Questo è il primo dei suoi testi teatrali. Come è nata l’idea?
Si, il primo. È nato quasi per caso o forse per una coincidenza.
E l’ispirazione? Cos’è che accende quella lucetta che le fa dire “questa è l’idea giusta”?
Parte tutto da una circostanza suggestiva. A volte conosci solo il finale e devi ricomporre tutta la storia. E quella storia la sviluppi mentre la scrivi. Guardarsi intorno è fondamentale. Si può lavorare su tutto. Scrivere mi ha insegnato a osservare la vita. Passa l’uomo della frutta sotto casa dicendo “Fatevi la macedonia di fragole, tre euro la cassa. Carciofi belli, carciofi belli …” e ti viene in mente qualcosa.
Il modo in cui i personaggi sono tratteggiati è infatti molto realistico, pur essendo così marcato spesso il lato, come dire, cinico…
Il lato realistico è uno degli aspetti del mio lavoro. Mi piace pensare alla scrittura non soltanto come linguaggio di cultura ma anche come lingua di vita.
Progetti futuri?
Spero di esserci. Sono sempre stata il tipo di persona che programma ogni cosa nei minimi dettagli. La vita, però, è piena di imprevisti. E non si sa mai dove si va a finire…