C’è un sole che si muore, a cura di Lama e Calabrò
Caldo, da sentirsi mancare il fiato. Vicoli, intrecci, claustrofobia. Undici sguardi, undici storie, undici autori, che quel caldo, quei vicoli, quelle facce distorte di realtà conoscono bene. C’è una napoletanità che oltrepassa gli stereotipi. C’è un misto di ansia, adrenalina, che vuol dire che il filo è ben teso, come per i panni ad asciugare che chi passa per queste strade conosce bene.
C’è un sole che si muore. Racconti gialli e neri da Napoli e dintorni (Il Prato) è una raccolta curata dai due autori Diana Lama e Paolo Calabrò. La prima, mano ferma e tagliente come il suo nome, laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Napoli Federico II, specializzata in chirurgia del cuore, Presidente dell’Associazione di scrittori NapoliNoir; Calabrò, invece, laurea in Scienze dell’Informazione e Filosofia, membro di NapoliNoir e amante della filosofia quanto del giallo. Insieme hanno curato questa pubblicazione che racconta, in modo semplice e spietato, la perfetta integrazione tra giallo e nero, tra attesa e compimento, senza mai una sola nota stonata.
Undici autori di straordinaria capacità che rileggono, a carte scoperte, una città dalle mille sfaccettate sfumature. C’è l’animo stesso, malattia, coperta pesante, costretto ad adattarsi, a stringersi e allargarsi, a pazientare sospirando davanti alla bellezza del mare per nascondere gli occhi alla bruttura, che sa essere veramente brutta quando si perde tra le pieghe di certe malinconiche vite senza voglia di vita. C’è una scrittura originale e moderna in mezzo a storie stemperate tra il ricordo e il culto, esoterico, vivo, lontano e attuale. Cronaca, e immaginazione, sapore di quiete e un sole che brucia e uccide.
L’associazione NapoliNoir, creata da Diana Lama e Luciana Serpi, in questo libro chiama a raccolta, e lo fa per la prima volta, un collettivo di autori diversi che sanno dare voce alla pietra e alla sabbia al perduto amore, alla cattiveria vestita di rassegnazione che a tratti quasi perdoni prima di volerla seppellire. Undici voci che avrete il desiderio di moltiplicare, perché vi sembrerà troppo breve questo spazio protetto in cui qualcosa sta per accadere e quasi, tra le pagine, c’è la sensazione di potersi nascondere e difendere – forse – prima di uscire in pieno sole, prima di emergere dal nero di profondissime notti, e andare verso la luce di un sole che… si muore.
La scrittrice Diana Lama risponde ad alcune domande per noi di Meloleggo.
Diana Lama, signora del giallo, si legge di Lei che è stata tradotta in più di un paese, segno che se un romanzo vale oltrepassa ogni confine. Cos’è che a Suo parere determina il successo di una storia? Cos’è che la fa “funzionare”?
Credo che una storia funzioni se i personaggi hanno uno spessore che li rende credibili, se ci si riesce a incuriosire per quello che capita loro. E poi ci deve essere ritmo, una certa imprevedibilità associata al fatto che la storia deve rimanere plausibile. Alla fine, però, il motivo per cui un libro piace davvero è impalpabile. Ci sono storie, lette anni fa, che mi porto dentro il cuore senza sapere perché.
La sua scrittura piace, è intensa, curata, accurata… C’entra qualcosa con l’altra parte di Lei, quella che in mano non ha una penna? Lei è anche medico, ricercatore, chirurgo.
Sicuramente il fatto di essere medico mi ha aiutata. Ho un passato da cardiochirurgo, anche se da anni faccio l’ecocardiografista, ma la dimestichezza con il corpo umano, dentro e fuori, mi è di certo utile. E anche la curiosità per le mille circonvoluzioni del cervello umano.
Come nasce la passione per la scrittura? C’è una storia alla quale è particolarmente legata o un momento in cui ha capito che la scrittura poteva essere più di una passione?
Sono sempre stata una lettrice forte, direi quasi bulimica. Il genere giallo, thriller, noir o come dir si voglia è il mio preferito da quando ero un bambina, ma ho letto e leggo di tutto, sono onnivora e insaziabile. Da questo alla scrittura il passaggio è stato lungo – ho iniziato a scrivere verso i trent’anni – in modo naturale, la normale evoluzione di qualcosa che dà un senso alle mie giornate, la parola scritta, da me o da altri.
NapoliNoir, fucina di talenti, è un progetto importante per questa città. Crede che appartenere a un luogo determini uno stile, un certo modo di leggere la realtà? E quindi, di conseguenza, come si scrive in questa città di contraddizione, di buio e luce in bilico perenne?
Napolinoir è nata in un momento in cui a Napoli non c’era la ricca fucina di giallisti che c’è ora, per l’esigenza di un piccolo gruppo di persone di unirsi in nome di un interesse comune. Siamo anche ormai un gruppo di amici, e lo stile di scrittura è diverso per ognuno di noi. Siamo accomunati, però, come lei dice benissimo, dall’amore per questa città di buio e di luce, una città difficile da raccontare proprio perché “tanta”, ma che offre spunti continui.
A proposito di C’è un sole che si muore, può dirci qualcosa di questa raccolta sorprendente, originale a tratti quasi ansiogena?
C’è un sole che si muore nasce da un’idea di Paolo Calabrò, amico, scrittore e filosofo, che come nuovo acquisto di Napolinoir ha portato una ventata fresca di originalità e di entusiasmo. È riuscito a coinvolgere talenti diversi, alcuni di Napolinoir altri esterni, ma tante voci originali e interessanti. Il risultato è un libro che spero faccia buona compagnia agli appassionati sotto l’ombrellone.