A tu per tu con Maria Silvia Avanzato
Parole come trappole che imprigionano, al buio. Il destino come una lama che trafigge, come lamiere che si accartocciano confondendo il presente con il passato. Il buio nel quale piomba la protagonista, Gloria, ingoia anche il lettore, e manca l’aria. Bisogna sciogliere matasse e liberarsi dalle ragnatele prima che del buio stesso si diventi pasto. Il bene si confonde si tramuta in claustrofobia.
La trama di Anemone al buio, romanzo nato dalle abili mani ricamatrici di Maria Silvia Avanzato, è solo una minuscola parte della storia, perché perdersi tra queste pagine e parole è un gusto che oltrepassa la storia.
Gloria è bella ha una vita piena, un’agenda in cui trascrivere, cancellare e rimandare, fitta di vita. Lei incanta, genera luce propria, ma la luce ha sempre la sua lunga ombra e le ombre lunghe sono perfetti nascondigli per chi cova la rabbia, il rancore. La mente in questo si accompagna al resto, perché anche le gambe vacillano, anche tutto il resto del corpo, fatto a pezzi in un attimo, nel tempo di una curva. E la vita ti porta una vita diversa, con un corpo che non puoi vedere, che vorresti ma non puoi riconoscere. Sotto le mani senti solo il dolore, la ruvidezza dell’incubo nel quale sei immersa. Restano giorni da mettere insieme e una memoria da ricostruire un pezzo dopo l’altro. In mezzo facce conosciute e sconosciute, voci odori rumori, in balia del buio, di una cecità forse momentanea, lunga, troppo lunga, dove i brevi sprazzi di luce di cui ti riappropri non aiutano a liberarsi dall’angoscia.
Di chi può fidarsi Gloria? Di Licia. l’amica di sempre, quella che si curerà di lei. Ma quanta fiducia può riporre nelle proprie mani, nel proprio cuore? Quanto può fidarsi di se stessa, delle immagini che riaffiorano, dei ricordi che confondono verità e menzogna?
Anemone al Buio è l’ennesima, fortissima e intensissima prova di un’autrice talentuosa. Una storia dalle atmosfere noir mescolate con il velo leggero e onirico di uno stile dall’impronta riconoscibile e formidabile. La scrittura piena e le descrizioni che affiorano come visioni ti spingono a proseguire un viaggio narrativo che non soffre di cedimenti o banalità. Si rimane in equilibrio sul filo dell’attesa, totalmente in balia di una suspense costruita con grande sapienza. Abbiamo voluto scambiare due parole con l’autrice.
Come nasce una trama così ben costruita? Non ti chiedo una confessione sul modo in cui scrivi, ma solo quanto è frutto di uno studio preciso fatto a tavolino e quanto invece di un sogno definito a piccoli passi, senza costruzioni.
Premetto che ciò che scrivo è sempre rivolto all’ipotetico lettore: questo simpatico sconosciuto è presente dalla prima all’ultima pagina, scrivo sempre pensando a lui, ai suoi gusti, alla giornata no che ha appena vissuto, alla sua ragionevole stanchezza, alle mille alternative valide alla lettura del mio romanzo. Potrebbe trovarmi insopportabile, per esempio. Potrebbe decidere di restare con me per poche pagine e poi lasciarmi.
Costruire una trama efficace è un modo per dire all’illustre sconosciuto: “Resta con me per un po’ e non pensare al resto”. Il caso di Anemone è ancora più specifico: l’ho scritto quando ho conosciuto il mio attuale fidanzato, che è diventato l’ipotetico lettore. Il mio fidanzato legge a malapena i manuali di istruzioni dei frullatori, sia chiaro. A maggior ragione io volevo conquistarlo, piacergli, comunicare con lui e conoscerlo in base alle sue reazioni. Oggi mi piace pensare che il segreto di Anemone sia semplicemente questo: è stato scritto da una ragazza che si innamora e spera di essere ricambiata, una che si scervella per tenere il suo bello incollato alle pagine. Poteva essere una cenetta romantica, l’invito a una serata di karaoke per dare prova di doti canore, un regalo azzeccato. È stato un romanzo. Del quale lui ha letto almeno trenta pagine. Poi ci siamo messi insieme e ha smesso di fingersi lettore accanito. Oggi è serenamente tornato ai manuali di istruzioni dei frullatori.
Come ti accorgi che una storia è “quella storia”, quella giusta?
Solitamente me ne balenano in mente tre o quattro. Riconosco “quella giusta” perché a distanza di mesi è l’unica sopravvissuta. Alcune idee scompaiono nel nulla, perdono smalto, diventano opache e traballanti. Non è detto che non debbano essere scritte ma magari non vanno scritte in quel momento.
Dimmi del tuo stile, Maria Silvia. Come ti definiresti?
Fino a un anno fa mi definivo barocca e bucolica per via di In morte di una cicala, adesso c’è Anemone ed è contorto, claustrofobico, non visivo, forse più immediato del precedente. La verità è che io faccio esperimenti, non conosco affatto il mio stile.
E come nasce la tua ispirazione?
Soffermandomi su un dettaglio che catturo nella confusione: una persona, una casa, una via che non avevo mai visto. Mi serve un punto di partenza per cominciare a collocare i miei piccoli mattoni e costruire.
C’è un autore al quale senti di essere affine?
No, ma se un giorno potessi anche solo lontanamente sfiorare lo stile del mio indiscusso idolo, Janet Frame, potrei dirmi soddisfatta. Comunque tranquilli, non ci riuscirò mai.
Può esistere una morale in una storia? Può esistere in questa storia?
Ognuno è invitato a trovare la propria morale in ciò che legge. Credo che un libro possa contenere più di un messaggio. In Anemone si gioca con il tema della diffidenza e di sicuro volevo che in qualche modo emergesse anche una storia d’amore. Ho una totale negazione per le storie d’amore, ma stavolta volevo che i sentimenti trapelassero almeno un po’. Gloria, a seguito di un incidente, perde la vista e la memoria. È costretta ad affidarsi a coloro che la circondano e certo non prevede di poter ispirare l’amore in uno sconosciuto. E invece…
E sotto sotto vorrei chiederti se si può assolvere tutta quella parte nera e imperfetta che tutti noi possediamo…
Sì, quella parte nera la possediamo tutti. Possiamo imparare a conviverci, cercare di trasformarla in un punto di forza, ma non credo che ci si possa sentire in obbligo di perdonarsi per qualcosa che è insito nella natura umana.
A proposito del buio claustrofobico della cecità. Non so se esiste qualcosa di più difficile e crudele da immaginare dell’essere in balia di tutto quello ciò che ci circonda… Come ci si cala in un dolore, in uno stato simile?
Nel mio caso ci si cala fisicamente: quando ho scritto il romanzo mi sono bendata per affinare le mie percezioni. In questo modo, ci tengo a chiarirlo, non ho vissuto l’esperienza di una non vedente dalla nascita, ma ho fatto in modo di perdere momentaneamente uno dei miei sensi più importanti. Come Gloria. Per il tipo di trauma subito ho chiesto indicazioni al dottor Andrea Gaggioli che mi ha aiutata a chiarire la “faccenda della vista”. Per i problemi di memoria, invece, mi sono confrontata con un ragazzo che anni fa ha subito una perdita analoga a seguito di un incidente frontale: lui è stato il primo a leggere il manoscritto finito e l’ha sentito molto vicino alla propria condizione. In un certo senso, in questo romanzo ci sono le esperienze di tre persone: quella una tizia che si benda tutti i giorni per mesi perché vuole imparare a privarsi della vista, quella di un medico, che rappresenta colui che solitamente interviene curando e inquadrando la patologia e infine quella di un sopravvissuto a un incidente stradale, tornato alla vita di tutti giorni con alcuni ricordi in meno. Forse siamo gli spiriti guida di Gloria.
Fai mille cose, sei uno spirito creativo, la vita influenza la scrittura o viceversa?
La scrittura è l’attività principale della mia vita, devo alla mia vita molte ispirazioni. Quindi entrambe le cose sono vere.
E se non avessi scritto, come avresti incanalato tutta l’energia creativa che hai?
Avrei lavorato di più a maglia e forse avrei ascoltato altre parti di me: la parte che di recente vorrebbe fare il veterinario, la parte che non può suonare il violino per via di un problema ai tendini della mano sinistra, la parte un po’ cuoca, la parte viaggiatrice. Ora che ci penso… sono piena di parti. Forse dovrei ascoltarne qualcuna.
Tu come ti poni di fronte alla tua parte scrittrice? Ti piace quello che scrivi?
Sono ipercritica, non sono il tipo che si rilegge trovandosi insuperabile e fantastica. Solitamente i romanzi finiti e pubblicati smettono di appartenermi, diventano di tutti. A quel punto è piacevole confrontarsi con chi ha letto il libro, con chi ha trovato quel significato nascosto al quale nemmeno tu avresti mai pensato. Sono gli altri a raccontarci i libri che scriviamo.
Avresti un consiglio per giovani esordienti a caccia di possibilità?
Un tempo avrei risposto “non ascoltate chi cerca di scaricare su di voi le proprie frustrazioni”, perché sono numerosi coloro che tentano di sradicare la bellezza e l’entusiasmo dall’animo altrui. Oggi vorrei dire questo e molto altro. Vorrei suggerire di tenere i propri lavori al sicuro nel pc anche quando sembrano impubblicabili, senza speranza, un peso inutile. Perché anche i gusti dell’editoria cambiano e tutto ciò che è stato messo su carta può tornare utile in futuro. Vorrei augurarvi di trovare non una casa editrice, ma una casa editrice che investa concretamente su di voi. C’è differenza. Io ho impiegato anni prima di trovare il mio attuale editore, questa realtà si prende cura di me e mi incentiva a scrivere, non è così scontato. Vorrei incoraggiare chi scrive nei ritagli di tempo, chi si sente irrealizzato o incompreso. Consiglio di imparare a distinguere fra amici e amici apparenti, in questo ambiente come nella vita. E anche ricordare che se state scrivendo un romanzo per diventare popolari su Facebook, arricchirvi in un baleno o sentirvi parte di un gruppo, ci sono tante altre attività meno impegnative, più stabili e rassicuranti, a portata di mano.
Ancora una domanda. Progetti futuri?
Ho in mente un nuovo romanzo da due mesi e l’ho comunicato alla casa editrice, qualcuno lo aspetta già per leggerlo. Vedo la trama dall’inizio alla fine, so esattamente cosa succederà, so quali saranno le atmosfere. Adesso avrei solo bisogno di prendere la mia macchinina malconcia e arrampicarmi fra i monti fino a raggiungere la casetta dove spesso mi rifugio. Lì, completamente sola e allietata unicamente dalla visita di qualche gatto campagnolo, scrivo l’inizio di ogni storia. È importante avere almeno un posto al mondo dove sentirsi a casa: il mio è gelido, scricchiola, ha le pareti di pietra e quando viene buio il giardino diventa imperscrutabile, spettrale, a volte si sentono i lupi ululare nel bosco.