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Cerchi infiniti, di Cees Nooteboom

Cerchi infiniti
Cerchi infiniti

Alzi la mano chi è stato in Giappone e non si è trovato avvinto in un senso di estraniazione, fascino, irrealtà, ammirazione, incomprensione. Io, a dire il vero, non ci sono mai andato; ma ho letto molto, ho parlato con chi l’ha visitato, e posso dire che una certa coscienza l’ho maturata. Quando mi è capitato questo libro tra le mani, ho avuto conferma di alcuni paradossi e idee strane che mi ero fatto.

Cees Nooteboom, scrittore di punta della letteratura neederlandese, è stato più volte visitatore del paese del Sol levante, di quello strano marchingegno tradizional moderno che riscuote consensi nell’odierno sistema e raggiunge vette di incomprensione per quanto riguarda convinzioni, tradizioni e mentalità all’apparenza aliene a ogni linearità assodata nel mondo occidentale.

I viaggi di cui si parla in Cerchi infiniti (Iperborea) iniziano sul finire degli anni Settanta, per poi riproporsi nel corso dei decenni successivi. Un’esperienza continua, affrontata la prima volta con la serenità e la timidezza dell’inesperto, le impressioni di una cultura occidentale che sbarca per la prima volta in quel territorio di irrisolta conoscenza.

Nei suoi resoconti, con abilità incontestabile, Nooteboom affronta vari aspetti, e si immerge in esperienze mistiche nei monasteri buddhisti e nei templi shintoisti, nell’assistere alla poesia della fioritura dei ciliegi, oppure nei giardini zen dove la natura ha la libertà di proporre le sue strutture contrariamente a quanto accade nel mondo occidentale, dove s’intende ovunque modificare, modellare e conferire per forza un ordine alle piante e alla loro crescita.

Indubbiamente, il suo è un Giappone intriso di cultura, da quella semplice dei contadini e dei calendari che scandiscono la vita di campagna, a quella dell’estasiante raffinatezza della cultura di Heian, isolata corte del XI secolo, con le Note del guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji di Murasaki Shikibu. E poi il teatro kabuki, le incisioni e la pittura, e le mille difficoltà a penetrare le barriere linguistiche, vero e proprio emblema di un’identità nazionale fuori da ogni paragone, come quelle specie scoperte nelle isole sperdute nel Pacifico, piene di peculiarità e innegabile fascino.

La lingua, accarezzata nel tentativo di potercisi intrufolare per poi capire che resta difficile, specie laddove trasmette emozione, contesto, e non semplice vocabolo. E l’arte? Siamo tutti in grado di ammirare la bellezza, ma il significato delle opere spesso sfugge anche ai più addentrati intenditori.

Viaggiando per il Giappone, Nooteboom non sfugge alla sensazione di estraneità, nonostante la delicata cortesia delle figure umane, perché per ognuna di loro è come vederci attraverso, sentire solo quello che concedono senza aver mai l’impressione di aver capito tutto. Amitrano, nella postfazione, scrive:

Nooteboom riesce a catturare un sentimento che molti viaggiatori conoscono, e che è possibile sperimentare in qualunque paese: la paura, non sentendosi visti e riconosciuti, di scomparire nel vuoto, di non esistere

Pertanto, continua Amitrano: 

Cees Nooteboom oscilla costantemente tra un senso di appartenenza e uno di estraneità

Aggiungerei io – se posso – che mi ricorda un po’ come quando conosci una persona e ti senti affascinato/a da lei: vorresti approfondire e farti apprezzare, ma quella resta sulle sue, concedendoti soltanto il minimo sindacale. Allora, per inconscia reazione, non fai altro che sentirti estraniato, quasi rifiutato, arrivando a chiuderti nella tua timidezza.

Ma tornando al Giappone, risalta spesso la specifica e risaputa indole a seguire – caschi il mondo – le regole, la precisione della puntualità, gli orizzonti sconfinati della tecnologia nel paese che della tecnologia ha fatto il proprio baluardo, il tratto distintivo di una modernità necessaria, indifferibile per potersi confrontare con le nazioni che tendevano, invece, a tener confinato il popolo giapponese nell’isolamento volontario dei secoli.

Continuamente rimbalzato tra l’antichità, la tradizione, la storia e l’estrema modernità delle città, Nooteboom ammette che più si viaggia e conosce il Giappone, e più i dubbi della partenza sono maggiori di quelli dell’arrivo.

Di elementi per indurre la curiosità il libro abbonda, il resoconto dei viaggi è rilassante e ben dosato, le novità appaiono come le sorprese delle mille e una notte.

Se non potete permettervi un viaggio in Giappone, consolatevi con questo testo. Saranno soldi ben spesi.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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