Prima dell’alba, di Paolo Malaguti
Il Vecio capisce che la sua scelta oscilla sull’orlo di un baratro gigantesco, dentro il quale non ci sono soltanto sconfitta e invasori e prigionia, ma il vuoto, la pazzia, la perdita di sé. E per la prima volta da parecchio tempo ha paura […] Attraverso la memoria del generale Graziani, di ciò che attraverso di lui l’esercito e l’Italia avevano scelto di fare ai loro soldati, Malossi riscopriva un se stesso assopito e dimenticato, ma più che mai vivo. Lui non aveva mai visto Graziani di persona, al fronte. Però la sua presenza incombeva ovunque. Malossi aveva raccontato a Seganfreddo come l’ombra di Graziani si stendesse, onnipresente eppure sfuggente, dall’altopiano di Asiago fino alle foci del Piave, incutendo terrore a tutti i soldati.
Lo sguardo di un’Italia sprofondata nell’abisso della disperazione per la pesantezza morale e fisica di una guerra, iniziata senza un vero mordente, che dura da più di due anni e che rimane ingabbiata nella mente dei soldati in trincea. La trincea è il luogo in cui si sviluppa la storia raccontata da Malaguti che, con chiarezza e una veduta innovativa e del tutto sganciata dagli steccati valoriali tipici della storiografia italiana, porta il lettore a rivivere la durezza e la depravazione della guerra.
Il Vecio, personaggio e protagonista di Prima dell’alba (Neri Pozza), rappresenta il simbolo del disagio provato dai soldati durante il tragico ottobre del 1917 culminato con lo “strategico arretramento” dalla valle dell’Isonzo da parte dell’Esercito italiano del tutto impreparato di fonte all’efficienza incursionistica del nemico austro-tedesco. La disfatta di Caporetto come epicentro della frattura tra linea di comando e truppa è la cornice storica che, attraverso la vita di trincea raccontata dal Vecio e dai suoi compagni, accompagna il lettore a guardare, in tutta la sua cruda realtà, il dramma di un’attesa perenne scandita da spostamenti, costruzione di nuove trincee, colpi di artiglieria o di mitragliatrice che dilaniano i corpi dei soldati più sfortunati o accecati dalla paura provata durante i combattimenti.
L’autore, insegnante di professione, dimostra di voler dare un taglio anche antropologico alla vicenda narrata, in quanto rievoca l’esperienza vissuta dai ragazzi nati nel 1899 e chiamati nel 1917-1918 a colmare i vuoti causati da morte e disperazione. La storia risulta dinamica e avvincente grazie a un doppio binario su cui scorrono da un lato l’esperienza della guerra di trincea e dall’altro la morte del Generale Graziani accaduta nel 1931 in circostanze poco chiare in quanto il corpo è stato ritrovato lungo la tratta ferroviaria di collegamento tra Prato a Firenze. Su quest’ultima vicenda verrà chiamato a indagare l’Ispettore Malossi della Questura di Firenze.
Senza svelare i dettagli della vicenda, interessante risulta l’invisibile filo conduttore che lega il destino del Generale Graziani e il clima vissuto dalle truppe italiane nel 1917 a seguito della ritirata della linea di fronte causata dal cedimento delle prime linee lungo il fronte dell’Isonzo. Al riguardo, come acclarato dalle evidenze storiche, il Graziani, nel novembre del 1917, venne chiamato a svolgere il delicato compito di arginare la “voglia” di abbandono maturata tra i giovani soldati che, durante quel periodo dominato da una confusione dovuta a inefficienze logistiche e di comando, cercarono in molti la strada della diserzione. Drammatico l’episodio narrato da Malaguti che, riuscendo a “congelare” gli attimi che connotano la vicenda, descrive la frattura creatasi tra un esercito del tutto sbandato e smarrito e un vertice ossequioso della più becera e inutile ortodossia burocratica rappresentata dalle circolari e dai regolamenti militari. L’episodio, centrale in quanto fa convergere i due binari narrativi verso un unico punto, si appalesa in tutta la sua normale brutalità: il “boia” Graziani si accorge di un soldato che, non avendo gettato il sigaro dalla bocca al suo passaggio, incarnava lo spirito anarchico che, secondo l’ottica distorta e del tutto disancorata dalle sofferenze e dalla disperazione patite dai soldati, stava dilagando tra le fila del regio esercito. Dopo aver constatato la violazione del regolamento, Graziani bastona e fa fucilare quel soldato alla presenza dei suoi compagni di sventura.
Tale episodio racconta, nella sua tragicità, l’ottusità dimostrata dal vertice militare durante la Prima Guerra Mondiale, riconosciuta da molti come una delle cause della disfatta di Caporetto: mancanza di coordinamento tra le diverse linee di comando, incapacità degli ufficiali di dare una risposta concreta alle difficoltà operative, inadeguatezza dell’equipaggiamento in dotazione ai soldati italiani.
Il finale raccontato da Malaguti impreziosisce il romanzo, perché riconosce dignità ai giovani soldati rimasti per sempre intrappolati nelle viscere della terra di un pezzo d’Italia e che, attraverso lo sguardo spento e sfigurato del Vecio, assaporano, se pur idealmente e soltanto all’interno della cornice narrativa di questo racconto, il gusto della giustizia che opera nonostante un apparato investigativo, quale quello esistente nel 1931 nel pieno del regime fascista, totalmente asservito alle logiche di potere ruotanti attorno alla struttura monolitica del Partito Nazionale Fascista incarnato dalla persona del Duce. L’Ispettore Malossi, giovane fante nel 1917-18 che ha vissuto da lontano la maledizione della trincea, mostrando un senso di ammirevole umanità, non impedisce al cerchio della storia di chiudere la sua traiettoria e di alleviare, con ciò, il peso della deformazione spirituale vissuta e patita dal Vecio.