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Stoner, di John Edward Williams

Suo padre scosse la testa. «Tu con stasera hai finito. L’ispettore della contea aveva detto che i corsi duravano quattro anni». Stoner cercò di spiegare al padre le sue intenzioni, di fargli capire il significato e lo scopo della sua scelta. Sentì le parole uscirgli dalla bocca e cadere una dopo l’altra nel vuoto, e guardò il viso di suo padre, che riceveva quelle parole come una pietra riceve i colpi ripetuti di un pugno. […]

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini. Ma si chiedeva se, anche agli altri, essa si presentasse con la stessa forza impersonale.

Stoner
Stoner

William Stoner viene dipinto con tratti leggeri, quasi impercettibili, come se fosse un fantasma che vive nella sua totale trasparenza esistenziale. È John Eduard Williams ad accompagnare il lettore nelle pieghe temporali della sua vita, una storia che si sviluppa tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo nello stato del Missouri,tra la città di Boonville e quella di Columbia, sede della prestigiosa Università del Missouri.

Il protagonista di questo romanzo nasce in una famiglia povera e dedita al lavoro agricolo: il padre e la madre scandiscono il tempo per il giovane Billy che, secondo la tradizione familiare, è destinato ad aiutare il padre nel duro lavoro della terra. Sin dall’inizio, Williams non vuole illudere il lettore e mostra il destino del giovane Stoner schiacciato dalla durezza e ruvidità delle mani del padre, oramai già consunte e solcate da profonde linee in cui la terra ha trovato il suo eterno riparo.

Attenzione: la recensione svela passaggi della trama.

L’iscrizione all’Università, nella facoltà di agraria, è l’unico sbocco perché Billy possa ritornare e dedicarsi al lavoro agricolo con più competenza. William rimane frastornato per questa decisione e, con grande felicità, accetta la nuova sfida che lo porterà a vivere nella città di Columbia, ospitato da una famiglia a cui darà un valido contributo nella gestione della fattoria.

Lo scrittore descrive il momento in cui Stoner contempla, con timida devozione, il maestoso edificio che ospita l’Università del Missouri: nello spazio verde, di fronte alla Jesse Hall, si stagliano le sei colonne sulle quali il tempo mostrerà il suo volto sotto forma di luce ed ombra. Stoner, sin da subito, comprende che il suo destino sarà ancorato a quello spazio e al rosso dei mattoncini che rivestono l’esterno dell’edificio.

Questo romanzo, oltre a raccontare l’implosione emotiva di Billy, avvicina il lettore alla straordinaria forza attrattiva della cultura, intesa come manifestazione dirompente della passione per lo studio, l’approfondimento e l’arte dell’insegnamento. Il significato della vita, il fine verso cui tende l’uomo, la ricerca spasmodica di se stesso e l’inafferrabilità della felicità sono la cornice narrativa all’interno della quale la vita di Stoner scorre attraversando la tragedia della Prima e della Seconda Guerra mondiale, con l’orgoglio patriottico e il coraggio mostrato dai giovani studenti che decidono di arruolarsi.

Durante gli anni dell’università, Stoner matura la consapevolezza di voler insegnare e di immergersi nella cultura umanistica, abbandonando così l’indirizzo prescelto dal padre. Questo è il primo momento di frattura tra Stoner e la realtà circostante, che assume le vesti di una matrigna impegnata ad annientare ogni tipo di sogno. L’epicentro emotivo risiede nella mente di Stoner, nelle sue emozioni e in quella fragilità che lo rende un passivo spettatore della propria vita. Tutto si sviluppa e ruota attorno a tre figure femminili: Edith, Grace e Katherine. Stoner riveste i panni del marito, del padre e dell’amante e, in questo gioco di triangolazioni, viene sopraffatto dalla sua incapacità ad incidere e si vede sfuggire tra le mani il proprio destino.

Potremmo definire Billy, il protagonista di questo romanzo, come un anti-eroe o un eroe decaduto, che ama i toni crepuscolari dell’animo e che cerca di sondare a fondo la sua realtà interiore. Invero, Stoner è un narcisista sensibile, che ama disperatamente ogni sensazione che provoca in lui l’ebbrezza di una sconfinata emozione, crogiolandosi in una forma di passività a cui non si ribella. Il rapporto con Edith, sua moglie, è dominato da uno stato perenne di sconforto e di frustrazione sia di tipo sensoriale che di tipo carnale. Stoner esce sconfitto anche nel rapporto con la figlia Grace: durante i primi anni lui si dimostra un perfetto genitore e instaura un’intesa con la figlia che viene spezzata dalla presenza ingombrante di Edith la quale, con calcolata perfidia, proietta le sue speranze sul futuro della figlia. Grace, una volta cresciuta, riuscirà a sfuggire dalla opprimente aria familiare cercando una finta felicità in un matrimonio e in un figlio.

Riusciva a vederla giusto la mattina a colazione e restava solo con lei nei pochi minuti in cui Edith sparecchiava e metteva i piatti a mollo nel lavandino della cucina. Vedeva il suo corpo allungarsi, tornito da una grazia incerta, coglieva l’intelligenza crescere nei suoi occhi quieti e sul suo viso attento. E a volte sentiva che tra loro c’era ancora una certa vicinanza, una vicinanza che nessuno dei due poteva permettersi di ammettere.

Le ultime pagine consegnano al lettore una Grace adulta, nostalgica di quel frammento di rapporto che aveva instaurato da piccola con il padre, e totalmente insoddisfatta della propria esistenza, mostrando in questo modo lati, non troppo latenti, di un principio depressivo culminato in una dipendenza dall’alcool.

Infine, Katherine rappresenta lo sbocco, inaspettato e dirompente, allo stallo sensoriale in cui era piombato Stoner.

A quarantatré anni compiuti, William Stoner apprese ciò che altri, ben più giovani di lui, avevano imparato prima: che la persona che amiamo da subito non è quella che amiamo per davvero e che l’amore non è una fine ma un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra.

Il protagonista vive un’intensa storia amorosa con Katherine in un classico intreccio dal tono scandalistico tra un professore di mezza età e una giovane studentessa. Però, anche in questo caso, il nostro William rimane spettatore passivo e assiste alla distruzione di questo rapporto ad opera della realtà circostante. Anche quando, al termine della sua esistenza, irrompe nella scena la “bestia” nascosta, Stoner accetta passivamente la devastazione della malattia.

[…]Avvertì anche, con quel respiro che fece, qualcosa che si spostava dentro di lui, in fondo, e spostandosi fermava qualcos’altro, immobilizzandogli la testa in modo che non potesse più muoversi. Poi la sensazione passò e si disse: ecco come deve essere. Gli sovvenne che avrebbe dovuto chiamare Edith. Poi capì che non l’avrebbe fatto. I moribondi sono egoisti, pensò. Vogliono il momento tutto per sé, come dei bambini.

La sua esistenza si chiude con l’incontro ideale dei suoi mondi, ossia i libri ed i giovani studenti: nell’ultimo atto della sua vita si perfeziona la triangolazione tra Stoner, l’amore per la conoscenza e il volto speranzoso degli studenti.

La testa si voltò. Il comodino era carico di libri che non toccava da tempo. Vi lasciò scorrere la mano per un istante e si stupì della sottigliezza delle dita, dell’intricata articolazione delle giunture mentre le fletteva. Sentì la forza dentro di loro e lasciò che prendessero un libro dal mucchietto sul comodino. Era il suo libro che cercava, e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare ormai sbiadita e consumata dal tempo.

Williams consegna al lettore una storia maledettamente drammatica e sconvolgente. Ma il dramma non si consuma nel più classico spargimento di sangue: esplora le profondità dell’animo umano e la pesantezza dell’essere se stessi.

Meditando sulle vicende che strutturano la storia di Stoner il lettore si immerge in una riflessione amara e struggente: in ognuno di noi alberga un frammento di Stoner, le sue fragilità e la sua incapacità a stringere e a dominare la sua vita rappresentano in pieno le nostre piccole e quotidiane frustrazioni. Ognuno di noi, prima o poi, si ritrova ad osservare fuori dalla finestra il vuoto della propria esistenza, con ciò assaporando l’amaro delle delusioni e dei personali fallimenti. Il lettore non riesce a condannare Stoner perché non riesce a guardare in faccia la propria inettitudine e debolezza. Un romanzo in cui si affronta il tormentato problema della conoscenza di se stessi a cui nessuno di noi vuole dare una chiara risposta accontentandosi della rassicurante superficialità che ci domina.

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