Resto qui, di Marco Balzano
Le radici che scorrono, come braccia possenti, fino a cingere l’abisso del terreno a cui sono legate indissolubilmente. L’orgoglio da mostrare e rivendicare per difendere il proprio territorio da violenze e soprusi ammantati dalla logica, fredda e ripugnante, dello sviluppo economico e industriale.
Ancora una volta, come da sempre, la devastazione di una piccola lingua di terra viene giustificata dalla mano assassina della ‘ragion di Stato’; una devastazione che, nella vicenda storica narrata in questo romanzo, trova origine in un progetto dei primi anni del ‘900 che vedrà la sua concreta realizzazione nel 1950 con l’apertura di una diga che lentamente, come un veleno iniettato in un organismo sano, farà allungare gli ignari tentacoli dell’acqua su tutto l’abitato di Resia e Curon Venosta.
Ci troviamo in Trentino-Alto Adige, vicinissimi al confine con Austria e Svizzera, una porzione di terra dove l’italiano era la lingua dei fascisti e dei ‘cafoni’ manovali provenienti dal Sud. Il tedesco era la lingua riconosciuta come madre e dal volto benigno, costellata da valli piene di verde luccicante dove far pascolare gli animali. Curon, come Resia, è un luogo in cui il tempo è da sempre scandito dal lavoro nelle botteghe e nella fattoria; i masi, nascosti sulle alture delle montagne, custodiscono il sacro ventre delle tradizioni inestirpabili.
Marco Balzano, autore di Resto qui, romanzo uscito per Einaudi, veicola al lettore, con discorsi intimistici che mostrano profondità di spirito, il senso dell’amore di una madre verso la propria figlia a cui, con il volto crudele della storia fatta di guerre, di abbandoni e di speranze, si affianca il senso del vuoto, della estirpazione di un legame che viene reciso nel cuore di una notte.
Trina, prima figlia, devota verso il padre, autentica roccia difensiva, e poi madre di Michael e di Marica, è costretta a vivere il dramma del distacco della figlia che, poco più che undicenne, si trasferisce con la zia paterna e il marito in Germania per sfuggire al triste destino di Curon, paese che subirà nel corso del Novecento l’opprimente tenaglia distruttrice di ben tre dittature: quella fascista, quella nazista e quella democratica di uno Stato, liberato dal cancro mussoliniano, ma ancora dominato dall’impronta ideologica che aleggia all’interno delle istituzioni. Una lettera, poche righe con le quali la figlia spiega a Trina di aver scelto di andare via per un futuro migliore, fatto di cultura e traguardi solidi, con la promessa di ritornare e sperare in una pacifica riconciliazione famigliare. Quella promessa, a cui Trina si aggrappa con materna convinzione, sarà un ponte sospeso nel vuoto che crollerà senza far danno, in quanto costruito con il filo invisibile dei pensieri che cullano ogni persona che vive un lutto bianco e che non riesce a dare una spiegazione a quello schiaffo ricevuto con tanta cinica violenza.
Gli eroi, o forse gli sconfitti, sono coloro che decidono di rimanere senza farsi abbindolare dalla rassicurante e meschina offerta ricevuta dal nemico: nel 1939 il mondo si divideva fra ‘optanti’ e ‘restanti’, nel dopoguerra tra ‘indennizzati’ e ‘restanti’. Trina ed Erich, suo marito, decidono entrambi le volte di rimanere. Quella scelta, urlata con tutta la sua forza da Erich, avrà il peso della fame, della morte che mostra il suo volto lungo le alture della disperazione dove il freddo paralizzante è accolto con un senso di gioia perché provoca un dolore lancinante ma, proprio perché provato sulla pelle solcata dal vento distruttivo, rappresenta l’unica certezza di appartenere ancora al mondo dei sensi.
Balzano, con una capacità descrittiva e un sapiente dosaggio delle parole, riesce a far immergere il lettore in quell’angoscia, in quell’odore di morte, in quella paura di essere stanati perché marchiati dall’infamante vergogna della diserzione, e lo fa così affezionare a tutti quei personaggi che costellano il cammino dei fuggiaschi Trina ed Erich.
Commovente la scoperta che Trina fa del quadernino custodito da Erich nel quale, nel corso degli anni, ha disegnato l’immagine di una bambina colta in momenti di gioco e di intimità famigliare. Erich, per dare una risposta alla domanda insistente della moglie, aveva sempre affermato di pensare a Marica “non pensandoci”. Quella risposta, che appare non ordinata da nessuna logica, è intrisa del dolore autentico di un padre che non conosce la lingua del ragionamento perché non ha studiato, ma che conosce il linguaggio del cuore fatto di lacrime silenziose e invisibili, di immagini che vengono rese immortali dal tratto di una matita. Erich rappresenta l’incarnazione del dolore, nascosto dietro lineamenti duri e da una rozzezza tipica di chi ha conosciuto solo il puzzo del sudore e dell’odore intenso degli animali, ma mostra la sua fragilità nella disperazione provata nella consapevolezza di non poter bloccare i lavori di escavazione e di costruzione della diga e nella puerile illusione di riavere le case e il verde dei prati quando, in una giornata primaverile, il livello del lago artificiale si abbassa così tanto da far riemergere Curon nella sua autentica veste.
Trina, vera dominatrice e trascinatrice della storia, mostra con orgoglio il volto autentico della resistenza portando il lettore ad affacciarsi su quel lago dove oggi turisti ignari si affollano per guardare la torre campanaria, unica sopravvissuta al disastro ambientale.
L’ultima immagine che l’autore ci consegna è devastante, in quanto racchiude il vero dramma della storia, ossia l’assenza di un lascito intriso di valori e di culture appartenuti al passato: oggi noi, domani i nostri figli, apprezziamo quella torre affiorante dall’acqua pensando alla quiete e alla bellezza di quel posto senza sentire tuttavia il dignitoso dolore di chi è stato amputato e che, nonostante ciò, vive con orgoglio quella recisione così violenta e brutale.
Questo libro è un valido tentativo di ricucire il tempo passato e di educare al senso della storia ognuno di noi, con ciò permettendo di immergersi in quell’abisso non vuoto ma ricco di storia e di storie vissute su volti che parlano di noi e di quello che saremo. È un romanzo da leggere per accendere un faro di speranza e renderci più consapevoli e più rispettosi del passato.