Il testamento dell’uro, di Stéphanie Hochet
Una giovane scrittrice, invitata a presentare i suoi libri in un festival letterario organizzato a Marnas, un piccolo centro nel sud della Francia, accetta di buon grado l’esperienza. Qui, però, le cose si mostrano in un aspetto quantomeno originale.
Incontra, giunta sul posto, individui bizzarri, una certa inquietante aria di dissociazione da quello che è il mondo esteriore e soprattutto la rilevante presenza del sindaco Charnot, una sorta di guru al quale tutti i concittadini si mostrano legati in una sorta di inconsueto proselitismo politico-culturale.
La scrittrice, ovviamente, nota fin da subito queste particolarità, ma fa buon viso per non apparire scortese, anche quando lo stesso sindaco le illustra un visionario progetto di riportare in auge un mito, quello dell’animale preistorico chiamato “uro”, che tanto affascinò persino il mondo nazista per la sua forza e la sua imponenza e che spinse a compiere degli esperimenti per ricreare una razza estinta da tempo.
“…i pittori di Lascaux l’hanno rappresentato nel pieno del suo splendore e della sua eleganza, le corna appuntite e gli zoccoli che si staccano dalla pietra con delicatezza. È forte, onnipresente come Zeus nel suo Pantheon rupestre…”
Nella visione di Charnot, la giovane dovrebbe redigere una sorta di “biografia” dell’animale e, per quanto si tratti di un progetto fuori dalla consuetudine, accetta e ben presto si fa prendere la mano da un improvviso fuoco ispirativo e da una certa, stupefacente, attrazione accompagnata da un compiacente ottimismo.
“…Charnot aveva ragione, nessun altro poteva scrivere la leggenda dell’uro. Questa storia aspettava me. Il sindaco di Marnas ha capito quale scrittore ha di fronte. A questo punto non permetterò a nessuno di rubarmi questo Dio…”
Il testamento dell’uro, il romanzo di Stéphanie Hochet giunto in Italia con Voland (trad. di Roberto Lana) è questo e molto altro.
In primis, ho rivissuto l’esperienza – personale – del presentare un proprio libro in una località sconosciuta, con usi e particolarità proprie, e di essere ospite di gente mai vista prima. Però, le comunanze si fermano qui, proprio dove invece si innesca un racconto al limite del paradossale, dove i confini della sicurezza della ragione vengono travalicati spalancando le porte dell’interrogativo.
La Hochet è molto brava a dipanare una vicenda con tutti gli ingredienti utili per tenere il lettore avvinghiato alla pagina, senza far cadere la tensione e fornendo tanti e tali elementi di originalità che da soli valgono il prezzo del volume.
Una penna che si muove essenziale, mai pretenziosa, mirando il lontano fine che verrà svelato solo nelle pagine conclusive. Una penna moderna, schietta e colta il giusto, che ha saputo tracciare una storia interessante.
Forse, lascia un certo senso di incompiutezza in certi passaggi, ma questa – non mi stancherò mai di dirlo – è una pura questione di gusto, e ogni scrittore sa dove vuol arrivare, magari senza sapere da dove partire, e i suoi movimenti, le tracce che lascia per farsi seguire nella lettura, sono ampiamente ponderate e per questo finalizzare al risultato.
Io, in ogni caso, promuovo il testo per il fascino che mi ha lasciato dentro, quella vibrazione di insicurezza che lascia nudi, già al solo pensarci.
Dopo averlo letto, tutto si potrà dire ma non che sia un libro che lascia indifferenti.
E allora, buona lettura.