Molto a sud di Stoccolma | Intervista con Alessio Schiavo
Molto a sud di Stoccolma è un romanzo d’esordio che mi ha conquistato subito. L’ha scritto il giovane scrittore Alessio Schiavo, piemontese della provincia di Novara, che con stile asciutto racconta di un rapimento. Da qui il titolo ironico: come saprete, la sindrome di Stoccolma è quel particolare rapporto di simpatia e/o dipendenza psicologica che si instaura tra un rapito e il suo rapitore. Nel romanzo non mi pare succeda questo.
Il rapimento è raccontato dalla prospettiva del rapitore, un uomo maturo che, dopo avere narcotizzato e recluso la sua vittima in una stanza completamente isolata, inizia a comunicare con lei attraverso degli scritti che danno corpo al romanzo.
Il rapimento avviene poco prima di Halloween, in una serata di nebbia molto suggestiva. Almeno così la racconta il rapitore, come racconta il perché di questa data, perché ha scelto l’adolescente e lo scopo del rapimento: acculturare questa ragazza graziosa, impedendole di cadere vittima di una vita banale marito/figli/lavoro… ma forse non è il vero motivo.
Non dico altro per non rovinarvi la lettura. Aggiungo solo un plauso all’editore Fernandel, che ha meritoriamente dato spazio a questo nuovo scrittore. Se confermerà la bontà del suo primo romanzo edito, diventerà uno dei miei preferiti. Sentite cosa mi ha rivelato a proposito di Molto a sud di Stoccolma.
Come è nato Molto a sud di Stoccolma?
È nato dalla cronaca. Purtroppo, e non così di rado, si legge o sente di ragazze scomparse. Si finisce per crederle morte ma, a distanza di mesi, o di anni, ecco che vengono ritrovate. Accanto alla felicità di vederle ancora in vita, c’è lo sgomento di scoprire come abbiano trascorso la loro assenza: nella maggioranza dei casi, segregate da un maniaco. Quindi, oltre a Possibile che cose simili accadano?, un giorno mi sono chiesto Possibile che, accadendo, debbano sempre, banalmente, bestialmente, accadere per lo stesso motivo? Possibile che, accadendo, non riescano mai ad avere un motivo diverso, edificante persino, almeno nella mente di chi delle cose si rende responsabile? Il romanzo è nato così.
Molto ironico il titolo. L’hai scelto tu? Perché?
Grazie. Sì, l’ho scelto io, e all’editore è piaciuto. In realtà, avevo il titolo ancor prima di avere il romanzo, nel senso che lo avevo concepito per un soggetto simile che non ho sviluppato: ho conservato il titolo per l’occasione giusta, potremmo dire. E l’ho scelto per vari motivi. Il primo è che chi rapisce la ragazza confida nella proverbiale sindrome, nel rapporto empatico che talvolta s’instaura tra vittima e carnefice. Accadendo nel romanzo tutt’altro, ritenevo coerente alludervi fin dal titolo, sebbene qualcuno possa pensare a una posizione geografica… Un secondo motivo, pratico, è che cercavo un titolo che nessuno avesse ancora utilizzato, che individuasse il romanzo univocamente.
Particolare il tipo di scrittura, costruito tramite messaggi, che sembrano un monologo. L’hai subito pensato così oppure l’hai scritto anche in altri modi?
Anche nella scrittura cercavo di distinguermi. A scrivere, ho iniziato nel momento in cui ho capito di poterlo fare in un modo non troppo convenzionale. Se non avessi individuato quel modo, per quanto il soggetto m’intrigasse, probabilmente non lo avrei sviluppato, come accaduto con il precedente di cui dicevo.
Il romanzo con protagonisti rapiti e rapitori ha molti illustri predecessori. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?
Ero consapevole dei predecessori. Ma non potrei dire di aver tratto da qualcuno in particolare ispirazione. L’unico titolo che citerei, dal momento che in Molto a sud di Stoccolma vi alludo, è Il collezionista di John Fowles. Vi alludo sebbene io – colpevolmente – ne abbia letto soltanto una sinossi…
Fernandel come editore. Come è nato il rapporto con loro? Lo consiglieresti a un esordiente?
Conoscevo Fernandel per la sua storia, lunga più di vent’anni, e per il suo catalogo, dove accanto ad autori ampiamente affermati (penso ad esempio a Paolo Nori, o a Eraldo Baldini), trovano spazio degli emergenti. Ho quindi inviato il romanzo speranzoso e, dopo pochi giorni, Giorgio Pozzi, che di Fernandel è l’anima, mi ha contattato per esprimere un primo apprezzamento. Da lì in avanti, tutto è diventato naturale: Giorgio ed Elena Battista, l’altra rappresentante di Fernandel con cui ho avuto occasione di rapportarmi, si sono dimostrati professionali ed empatici, mi hanno guidato e mi guidano in questa esperienza per me nuova. E quindi sì, è un editore che consiglio decisamente a chi ritenga di avere un buon libro da pubblicare, o ne stia cercando uno buono da leggere…
Molto a sud di Stoccolma si presterebbe bene anche a diventare un film e/o un monologo teatrale. Con quale regista e attori ti piacerebbe vederlo?
Mi è accaduto di pensare che il romanzo si prestasse a una trasposizione, ma temevo dipendesse dal mio entusiasmo. Per il ruolo della ragazza, anche in considerazione della sua età, immaginerei un’attrice esordiente. Per il ruolo di chi la ragazza l’ha rapita, figura misteriosa, un nome eviterei di farlo proprio per preservare il mistero.
Un nome lo farei invece per il regista: fra i non pochi italiani di talento delle ultime generazioni, indicherei Valerio Mieli. Per quanto non si dedichi – non si sia ancora dedicato – al genere a cui appartiene Molto a sud di Stoccolma, si è dimostrato sensibile e minuzioso nel raccontare come due individui si rapportino, nell’esplorare le dinamiche di una coppia – è appunto attorno al rapporto di due individui, una coppia a loro modo, che il romanzo ruota. Peraltro, credo che Mieli abbia compiuto parte del suo percorso di studi presso l’Università del Piemonte Orientale – la mia.
Progetti futuri?
Ci sono altre storie che mi piacerebbe scrivere. In realtà, alcune le ho già scritte o quasi… Una di queste – rinuncio per un momento alla mia scaramanzia – è legata a Molto a sud di Stoccolma. Non un seguito, o un antefatto: qualcosa di contemporaneo, piuttosto, di parallelo. Di complementare. Spero davvero che avremo occasione di riparlarne…