Andromeda, di Gianluca Morozzi
Andromeda, racconta la mitologia, fu incatenata a uno scoglio per essere sacrificata affinché il suo popolo potesse scampare alla furia di un mostro inviato da Poseidone per punire la vanità di Cassiopea, la madre della fanciulla (spero di ricordarla bene, questa vicenda).
Andromeda è il simbolo di un sacrificio, ma non è l’unico simbolo che lascia l’amaro in bocca in questo libro che non definirei un giallo, piuttosto un noir introspettivo, una sorta di resa dei conti che procede lentamente come una tortura pregna di sadismo e cattiveria.
Andromeda è, anche, il titolo di questo romanzo edito da Giulio Perrone che ha una struttura semplice ma che si fa forza su dei personaggi ben delineati, figure che l’autore scopre a poco a poco e definisce gradualmente portando il lettore verso le pagine finali.
A partire dalla madre, la Cassiopea del libro, che “…solleva i capelli di Lucrezia, fissandola allo specchio, quasi vedendola per la prima volta. E si sente in dovere di dire: «Per fortuna sei intelligente, perché sei proprio bruttina». Otto parole. Bastano otto parole a disintegrare una figlia…”.
Una donna che mina continuamente l’equilibrio della famiglia, dal rapporto col marito a quello coi figli. E poi c’è la nonna, donna di usi e costumi antiquati e convinzioni ferree che incidono anche sulla crescita dei nipoti. E ancora Lucrezia, la povera Andromeda, vittima inconsapevole di una regia che sfugge a certe comprensioni umane, perché troppo vasto è il mondo delle incongruenze, delle combinazioni, per essere certi del futuro.
E poi, il protagonista. O meglio, la voce protagonista di un uomo che resta senza nome. Anzi, sul suo nome si basa un gioco sottile che porta a una crudeltà raffinata e allo stesso tempo spigolosa, che naviga nelle agitate e infide acque della memoria, delle cose che si dicono e quelle che non si dicono, dove il rancore non è un sentimento di breve durata, ma diventa la molla delle azioni, l’orologio che scandisce i tempi della vicenda, la vite che gira nella scanalatura e che porterà al finale tanto atteso.
“… Sai come finirà questa storia? Ti taglierò a pezzi, Dimitri. Ecco come finirà… Se d’un tratto ricorderai il mio nome, potrai interrompermi in qualunque momento e io ti libererò…”
Parlare oltre di questo libro è superfluo e non perché non sia un buon libro. Semplicemente, non mi par giusto raccontare altro. Leggerlo è una buona esperienza e va fatta con le proprie forze.
Non amo tessere le lodi dei libri. Non ne ho bisogno. E neppure il lettore, in genere, ne ha bisogno. Al massimo, posso aiutarlo con le mie sensazioni. Ecco: una recensione che trasmetta sensazioni.
Senza dubbio, non mancano una buona congruenza e colpi di scena azzeccati. La storia cresce, senza neppure apparire lenta – che poi è il difetto principale di certi thriller – e procede coerente con sé stessa, con l’idea che sta alla base.
Tutto perfetto? No, sarebbe da presuntuosi pretenderlo. A me, per esempio, resta l’idea che su certe figure avrebbe giovato una maggiore incisività, un maggiore spessore che avrebbe forse reso meglio l’atmosfera, quel senso di apnea che rende più che buoni dei thriller discreti.
Ma non è questo quel che voglio trasmettere, bensì il pensiero che la lettura è agevole e cattura. E questo, se vogliamo, non mi pare affatto una cosa cattiva.