Il fiato di Edith, di Nicola Pesce
« Jonathan restò incantato a guardarla, poi distolse lo sguardo perché provava dolore nel vedere il suo dolore. Cercò di fissare lo sguardo su qualcosa, e gli cadde su di un libro in pelle, dall’aspetto antico ed elegante, la cui chiusura era un lacciuolo di cuoio che ne faceva il giro più e più volte. »
Jonathan vive un’infanzia tranquilla in Irlanda, fino a quando il rotolare della sua palla non lo porta lungo un pendio fin dentro la casa dove vivono Edith, piccolo spirito dai capelli rossi e la pelle bianca, e suo padre.
Trova la bambina stesa a letto, appoggiata su una ragnatela di capelli sparpagliati sul cuscino, così debole da faticare a respirare.
È proprio il fiatone di Jonathan a spingere la bambina a parlargli, per domandargli come riesca a respirare. Jonathan subito rimane interdetto da quella domanda, poi quando vede il sangue bagnarle le labbra quando Edith tossisce, comprende meglio la sua curiosità.
Il respiro, il fiato che viene citato nel titolo stesso di questo libro, Il fiato di Edith, lo si trova in un rincorrersi di riferimenti durante tutta la durata della storia e ricorda decisamente il pneumà della filosofia greca, il respiro come principio di vita.
Il padre di Edith racconta a Jonathan una storia sulla malattia della figlia, di come sia stata maledetta da una strega e di come tutte le ampolle che si trovano su una credenza in quella stanza siano la soluzione di tutti i problemi della bambina, ma al contempo il compimento della sua maledizione. Di tutti i mille alambicchi che si trovano su quella credenza solo uno contiene l’antidoto alla malattia di Edith, tutti gli altri contengono liquidi che la farebbero peggiorare velocemente fino a morire tra atroci sofferenze.
Andare a trovare Edith, che non vive per paura di morire, e parlarle dell’Irlanda e del mondo esterno, diventano per Jonathan un segreto e un’abitudine.
Questo breve libro racconta la storia di un’amicizia dolcissima che si trasforma in amore grazie a una scia di parole luminose: le parole che Jonathan pronuncia per Edith ogni giorno, portandole l’Irlanda, le stagioni, i rumori e i profumi che lei non potrà mai sentire.
La natura irlandese è protagonista tanto quanto i bambini, a tratti brutale e a tratti fatata, e il mutamento del tempo segue il filo di pensiero degli antichi dei e del popolo fatato… così come i loro capricci.
La stessa Edith ha lo stesso carattere di una fata, capace di grandi slanci d’amore e pari capricci, e lo dimostra più volte nel corso della storia, facendo soffrire il povero Jonathan come nel migliore dei racconti delle fate.
E come in un racconto delle fate, non sempre vi è il lieto fine.
Ci accompagna nella lettura una sequenza di immagini e ispirazioni bellissime, distribuite con generosità in ogni capitolo. Si intuisce che siamo in un qualche punto del passato dagli elementi raccontati e presenti nella trama, ma non viene mai esplicitato in modo preciso.
Non credo che questo libro si possa definire totalmente narrativo, perché spesso, leggendolo, si ha l’impressione che sconfini nella poesia. I capitoli brevissimi e la ricercatezza della prosa aumentano quest’impressione.
È una lettura assolutamente estetica, bella agli occhi e alle orecchie, se letta ad alta voce, a prescindere da quanto la trama sia approfondita o completa.
Sicuramente non è un libro che ci si aspetta e neppure lo è il finale, che giunge inatteso. Molte ambientazioni sono condivise con grandi scrittori irlandesi sia del passato che del presente, come William Butler Yeats e Siobhan Dowd.
« I cuori, pensò, non risanano mai. Si rompono una volta da piccoli – al primo uomo che ti dice una bugia – e tutto quello che viene dopo è una finzione. »