L’uccello nero, di Gunnar Gunnarsson
L’Islanda è terra che richiama il fuoco delle eruzioni vulcaniche ma anche il ghiaccio, il freddo delle alte latitudini. Un freddo e un caldo non solo materiali, ma principalmente spirituali. Un qualcosa che grava negli animi di chi nasce in quelle terre e cresce, vive, matura la propria personalità. Nei suoi abitanti, probabilmente, risiede un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, come se ai bollori dei sentimenti corrisponda un ben preciso e contenuto gelo delle manifestazioni, fatto di silenzi, buio, ineluttabilità delle cose a venire come la pazienza di attendere il tardo disgelo della natura e il suo breve ricomporsi prima di un nuovo lungo inverno.
Scopro oggi uno scrittore islandese, Gunnar Gunnarsson, che non conoscevo se non associato qualche volta al premio Nobel Halldór Laxness.
Gunnarsson fu anch’egli candidato più volte al Nobel, senza però mai vincerlo. Le sue opere, scritte in origine in danese, furono in seguito da lui stesso tradotte nella lingua madre.
L’uccello nero (Iperborea, trad. di Maria Valeria D’Avino), ambientato nell’Islanda del XIX secolo, è considerato l’antesignano del noir nordico che tanta fortuna ha avuto come genere e continua ad avere nelle sue espressioni più recenti anche se più commerciali delle precedenti — ma questo, è un altro discorso.
In un villaggio di pastori e pescatori, la fattoria più isolata è abitata dal forte Bjarni e la malaticcia Guðrun da una parte, l’insignificante Jón e la bella Steinunn dall’altra. I bambini, in quel contesto, assumono da subito un significato marginale.
Le voci su una relazione tra Bjarni e Steinunn si rincorrono senza sostanza fino a quando Jón scompare misteriosamente e, poco tempo dopo, la malaticcia Guðrun muore lasciando più di qualche dubbio su cosa sia accaduto nella fattoria di Syvendeea. I due superstiti, a quel punto, oltre a essere accusati di adulterio, subiscono la ben più grave accusa di essere i responsabili della morte dei due rispettivi coniugi — nel frattempo, viene rinvenuto anche il cadavere in parte decomposto di Jón e si fanno più schiaccianti le prove di un tentato avvelenamento della moglie di Bjarni poco tempo prima della morte effettiva.
Séra Eiulvur, il giovane cappellano della comunità, si ritrova suo malgrado protagonista — oltreché io narrante — nella scomoda posizione di chi deve seguire la ricerca del colpevole, assistendo all’esame dei cadaveri, partecipando alle ipotesi e alle supposizioni senza però poter trascurare, col passare dei giorni, l’inevitabile conflitto interiore tra l’assicurare alla giustizia terrena i colpevoli e assistere loro con il proprio conforto spirituale.
Le atmosfere create sono magistrali. C’è la lentezza — mai pesante — dei ragionamenti che aiutano ad assorbire la storia nei fatti e il tormento spirituale di séra Eiulvur, esposto a una prova terribile in cui dovrà trovare, nell’acceso confronto dialettico con l’intransigente giudice Scheving e nell’ascolto delle varie testimonianze che conducono alla soluzione finale, la giusta scelta tra il soddisfare la giustizia terrena e l’agire senza ledere la speranza di un’espiazione ultra terrena.
L’angoscioso dubbio di Eiulvur, in sostanza, resta il vero potente messaggio del romanzo che si presenta come una lettura affascinante, spesso fatta di richiami alla tradizione islandese ma recante, in sé, davvero i germi tematici e le principali attrattive ambientali e umane che rendono così speciale il genere del noir nordico. Un testo, insomma, che consiglio anche per scoprire un autore e una terra che non è molto gettonata e che, grazie a editori come Iperborea, oggi possiamo apprezzare anche in Italia.