Bar Atlantic, di Bruno Osimo
Bruno Osimo prima lo conoscevamo nelle vesti di traduttore e per i numerosi manuali di traduzione. Poi, di punto in bianco, l’anno scorso ha pubblicato “Dizionario affettivo della lingua ebraica”, e ci siamo imbattuti nell’Osimo-scrittore-di-narrativa, rimanendone incantanti. Quest’ anno la sua magia riaffiora tutta con “Bar Atlantic” (Marcos y Marcos), che ha fatto la sua comparsa sugli scaffali delle librerie il primo giorno di marzo.
La storia racconta di Adàm, un uomo israeliano trasferitosi da setti anni in Italia, dove lavora come professore di ebraico presso l’università di… Alessandria, Bergamo, Pavia, Treviso e Verona. Da lunedì a venerdì si sposta in una città diversa dove tiene lezioni diverse, ha amanti diverse e ancora diverse abitudini. È un precario della vita, un equilibrista del tempo. Tuttavia, ciò che colpisce di Adàm è che tutta questa sua supposta precarietà lavorativa è in realtà incasellata con tale metodicità nelle sue giornate da diventare una routine precisa ed esatta: Adàm ha il proprio modo di fare le cose in ogni luogo in cui si reca, le sue strade e i suoi angoli, così come l’abbonamento caffè in ciascun bar, un’amante con diverso accento e gli orari del treno per ogni evenienza. Ha anche una moglie, Hhava o Ada (in base al suo nome anagrafico o a quello che usa lui quando la pensa), che venera, adora e tradisce ogni giorno. A dirla tutta, non si comprende se si possa parlare di vero e proprio tradimento, perché i modi e il sentire di Adàm quasi confondono e si finisce per rimettere in gioco un po’ tutto, da quello che dovrebbe essere la realtà lavorativa fino ad arrivare alla tradizionale concezione della vita di coppia. Forse perché Adàm non è italiano e quindi, attraverso i suoi occhi, si fa quietamente largo un’immagine del nostro Paese filtrata da un’altra cultura differente, dove buttare una sigaretta per strada è un crimine civico, cucinare non è forse prerogativa della donna di casa e le raccomandazioni per un posto di lavoro, lungi dall’essere velate, risultano sfacciatamente palesi.
Poi c’è quella strana impressione che prende post lettura, per cui si sente d’essere stati non lettori, ma spettatori di un concerto, dove alla voce dell’io narrante, con costanza, si sono unite quelle di miriadi di altri personaggi ancora che, nelle note a margine, si son dati da fare per correggere, commentare e arricchire di punti di vista tutto questo affascinante universo.
“Bar Atlantic” è una pietra di paragone, uno splendido spiraglio sul mondo della traduzione e del linguaggio, fonte di infinita ed inesauribile ironia ed un romanzo, rigorosamente da leggere.
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