Racconto: L’ultima sigaretta, di Paolo Zardi
L’ultima sigaretta è uno dei racconti scritti da Paolo Zardi e contenuto nel libro “Il giorno che diventammo umani”. Grazie a Neo Edizioni, abbiamo potuto regalarvi uno di questi racconti, riportato integralmente sulle nostre pagine. Buona lettura!
L’ultima sigaretta, di Paolo Zardi
Il 26 settembre 2009, intorno all’una e un quarto della notte, mentre fuori un cielo pieno di nuvole scure si chiudeva intorno a Padova, lui, disteso sul letto matrimoniale in stile futon, accanto al sonno profondo di sua moglie, fu scosso da un attacco improvviso e violentissimo di tosse: con gli occhi sbarrati sull’oscurità della camera, sperimentò l’antichissimo terrore dell’asfissia. Quando riprese a respirare, si alzò, barcollò fino al bagno, entrò in quel buio, appoggiò le mani ai bordi del lavandino, e riprese a tossire. Quando smise, e accese la luce, vide che la porcellana bianca, il rubinetto, il bordo del bicchiere con i quattro spazzolini, erano ricoperti da minuscole goccioline rosse. Rimase fermo per qualche secondo. Udì sua moglie muoversi nel letto, come se si stesse sistemando le coperte sulle spalle, e tornare immobile. Con un po’ d’acqua pulì il lavandino; si asciugò le mani; si bagnò la fronte, le guance, il collo. Lo specchio davanti gli mostrava l’immagine del volto di un uomo di mezza età, un po’ stempiato e pieno di paura; sotto, scorrevano i sottotitoli: cancro ai polmoni, a quarantadue anni. Aveva iniziato a fumare a quattordici anni e mezzo, a scuola, in ottobre, durante l’intervallo: la prima sigaretta – una Merit – gliela offrì un suo compagno di classe che rubava alla madre i soldi per comprarsele. Nel giro di qualche anno, arrivò a un pacchetto al giorno. Sua moglie insisteva perché smettesse; se lo faceva promettere ogni capodanno, mentre facevano tintinnare i bicchieri pieni di spumante. Lui avrebbe voluto, ma non ci riusciva. Ci provava, ma riprendeva quasi subito. Il cancro tutto sommato gli sembrava un’eventualità piuttosto remota – qualcosa che poteva succedere solo agli altri, come quei fulmini che d’estate colpivano pastori a caso, in campagna, di notte. Ma il sangue sul lavandino del bagno gli apparteneva in modo inequivocabile. Si passò una mano tra i capelli. Non era mai stato così vicino alla morte. Chiuse gli occhi. Il petto gli faceva male. Riaprì gli occhi. Pisciò tremando. Nella vasca da bagno erano rimasti i giocattoli dei bimbi: un dinosauro, una macchina delle Hot Wheels, una piccola Winx con le ali. Spense la luce. Il silenzio del condominio sembrava un rombo lontanissimo, appena percettibile. Prima di tornare in camera, si fermò davanti alla stanza dei bambini, e gettò uno sguardo su quel buio caldo e pieno di respiri: nella penombra, vide che il grande aveva gettato a terra il copriletto e ora stringeva tra le gambe un enorme cane che avevano comprato all’Ikea, qualche mese prima; la piccola teneva le braccia aperte, la bocca spalancata, gli occhi chiusi: cosa stava sognando, quella creatura di quattro anni? Ebbe un brivido profondo lungo la schiena: presto, quei due piccoli avrebbero perso il padre, e lui, avrebbe perso loro per sempre.
La mattina arrivò lentamente. Alle cinque era ancora buio, e pioveva forte; alle sei la luce bianca dell’alba iniziò ad infilarsi tra le tapparelle: lui si alzò dal letto, andò in cucina, guardò giù: foglie gialle e gonfie galleggiavano nelle enormi pozzanghere che riempivano la strada; tornò a letto, cercando di dormire. La sveglia dei vicini suonò alle sei e mezza, e fu subito spenta: una dimenticanza. Alle sette sua moglie sbadigliò, alle sette e quattro sbadigliò di nuovo, poi, si svegliò, un pezzo alla volta. Quando lei aprì gli occhi, lui le raccontò cos’era successo quella notte; lei minimizzò, o cercò di farlo. I bambini si svegliarono alle otto e un quarto, e si infilarono nel lettone. La piccola, tutta rosa nel suo pigiama di Hello Kitty, gli prese il viso tra le minuscole mani, e gli baciò una guancia con uno schiocco – lo faceva tutte le domeniche. Al grande, che aveva sei anni, e che era particolarmente orgoglioso del suo pigiama di Ben 10, mancava un dente davanti; sua moglie gli fece un po’ di solletico per vedere quel sorriso sbilenco pieno di simpatia. Quelle calde tenerezze, quell’intimità senza ombre che accompagnavano tutte le loro domeniche mattina, come un rito fondativo della famiglia, ora gli straziavano il cuore. Come avrebbe salutato quei bambini? Con quale coraggio? Nella luce vivida di quella mattina autunnale, gli fu chiaro che il senso della vita gli era sempre sfuggito; e quella consapevolezza disarmante e insostenibile era un dono che la morte gli anticipava, come una specie di risarcimento.
Ma non era cancro: la morte non aveva puntato il dito contro di lui. Due settimane dopo quella notte, un dottore sulla sessantina, con lo sguardo di chi aveva visto troppo dolore per poter essere ancora felice, gli disse che non aveva nulla: nulla. Gli avevano fatto i raggi X, una TAC, due ecografie, dieci pagine di esami del sangue, urine, palpazioni, ispezioni – il suo corpo era passato da un lettino all’altro, osservato da medici sempre diversi. Nulla. Le sue cellule continuavano a riprodursi con i ritmi consueti. Il sangue che aveva sporcato il lavandino durante la notte tra il 26 e il 27 settembre probabilmente era la meccanica conseguenza di una tosse particolarmente violenta. Ma doveva smettere di fumare: questo glielo dissero tutti. Era ancora abbastanza giovane perché l’interruzione immediata di quello stupido vizio sortisse qualche effetto. Lei non avrà quarant’anni per tutta la vita, gli disse il medico sessantenne, ci pensi. E a lui, quasi nudo sui lettini gelidi di quei gelidi dottori, venne una grandissima, improvvisa voglia di nipotini, di Natali trascorsi con i suoi figli ormai grandi – voleva assolutamente conoscere le famiglie che avrebbero avuto. Di chi si sarebbe innamorata la piccola? Suo marito sarebbe assomigliato a lui? E il grande, che a sei anni mostrava già un senso quasi paterno verso sua sorella e i suoi compagni di classe, che genitore sarebbe stato? Lo vedeva alto, con una barba che adesso era impossibile immaginare, e un bambino sulle spalle; sorridevano entrambi, e al piccolo, mancava un dente. Quando finì tutte le visite, e fu finalmente graziato, promise a sua moglie che non avrebbe più fumato. Il pacchetto che aveva comprato il 26 mattina, al negozio di tabacchi vicino a casa, rimase chiuso in un cassetto della scrivania nello studio, come un’alternativa alla quale si era detto di no. Gli pareva che in quella prigione di legno fosse rinchiusa la morte.
Resistette. Mise su l’inevitabile decina di chili, che però in parte perse in primavera iscrivendosi in palestra. Anche se non era vero, diceva a tutti che aveva ripreso a sentire il gusto del cibo. La sera era meno stanco. Ogni tanto gli veniva una voglia feroce di fumarsene una – specialmente dopo pranzo, quando la bocca sapeva di caffè. Ma resistette. Pensava ai suoi figli. Al loro futuro. Prima di andare a dormire, si fermava in camera loro, accanto ai loro lettini, e gli pareva che non esistesse nulla di più bello di quelle creature che dormivano serene: quelle fragilità trovavano riparo sotto il tetto che lui e sua moglie avevano costruito, o comprato. Quando la notte tuonava, la piccola si infilava nel lettone, e si stringeva a lui, perché sapeva che il papà era più forte del temporale. Certe sere il grande lo aiutava a sparecchiare; portava due piatti alla volta, barcollando tra il salotto e la cucina, pieno di orgoglio. A volte, sgridava sua sorella, con affetto, tenerezza, fermezza: lui gli diceva di non farlo, ma si riconosceva in quei gesti. Dopo tanti anni di giornate vuote, era improvvisamente diventato felice. Fino ad allora, aveva galleggiato sulla superficie della vita; adesso, finalmente si era tuffato nel cuore palpitante della sua esistenza, fino in fondo: la morte che per una notte aveva lambito la sua casa, la sua vita, gli aveva regalato uno sguardo nuovo – più lucido, più profondo, più vivo.
La sera del 26 settembre del 2010, lui e i suoi figli rimasero a casa da soli. Sua moglie era andata a una riunione organizzata dalla cugina del marito: da poco aveva avuto un figlio e, per passare il tempo o per integrare lo stipendio, vendeva detersivi per la casa, profumi per il bagno, dentifrici alle erbe. Per cena, prepararono tortellini. I bimbi nel frattempo erano un po’ cresciuti – il grande aveva sostituito il dente che aveva perso con un nuovo incisivo sproporzionato, ma aveva perso l’altro; la piccola aveva iniziato da qualche mese ad avere atteggiamenti leziosi, da femminuccia. La mattina chiedeva alla mamma di farle le treccine. Si era innamorata di un suo compagno all’asilo, o così le sembrava: dopo pranzo, raccontava quando tornava a casa, lei e Luca dormivano in due lettini vicini. La maestra disse che spesso si tenevano per mano.
Mangiarono. Guardarono un po’ di cartoni. Poi i bambini gli chiesero se potevano fare il bagnetto, loro due: era molto che non lo facevano insieme. Sua moglie, da qualche mese, aveva iniziato ad essere contraria, le sembrava che non avessero più l’età, che non fosse bello. Insistettero un po’. Alla fine, lui disse di sì.
Preparò la vasca. Il grande prese alcuni dinosauri che teneva in camera e li portò in bagno; la piccola raccolse due Winx da sotto il letto. Accese una stufetta per scaldare l’aria, poi diligentemente, la spense, e la ripose nel mobile sotto il lavandino. Guardò il bicchiere degli spazzolini: c’era stato davvero del sangue, lì sopra, un anno prima, o era stato solo un brutto sogno? I bambini si spogliarono, gettarono i loro giochi nell’acqua, si infilarono in quel tepore bagnato. Avevano ancora il segno chiaro del costume. Lui si raccomandò di non fare schizzi sul pavimento, e di comportarsi bene; strizzò l’occhio al grande, che sorrise. Poi uscì a prendere gli accappatoi. Passò davanti allo studio. Dentro al cassetto della scrivania, c’era ancora il pacchetto di sigarette, o sua moglie lo aveva buttato via? Lo aprì. C’era. Sollevò il piccolo coperchio di cartone: ne era rimasta una. La tirò fuori. Era passato un anno esatto da quella notte di sangue, e spavento. Alla fine, aveva vinto lui. Era libero. Fu per questa sicurezza che volle provare l’ebbrezza dell’ultima sigaretta.
Andò in cucina, accese la fiamma azzurra del fornello, chinò la testa facendo attenzione ai capelli, e si accese la sigaretta. Mentre usciva in terrazza, guardò l’orologio sopra il forno: segnava le 21 e 34. Si chiuse la porta dietro – non voleva che il fumo entrasse in casa. Si appoggiò con la schiena al muro, e aspirò forte. Il cielo era chiaro, illuminato dalle luci gialle di Padova. In alto, si intravedeva la costellazione dell’Orsa Maggiore. D’estate, prima di andare a dormire, andava in terrazza, si sedeva su una sdraio di plastica bianca, si accendeva una sigaretta, e guardava le stelle: mese dopo mese, si spostavano tutte insieme verso nord. Aspirò ancora. Nel cielo, il luccichio di un aereo. E se fosse esploso in volo, proprio mentre passava là sopra? Immaginò la palla di fuoco illuminare il cielo, il boato assordante che sarebbe arrivato dopo qualche secondo, i pezzi della carlinga che cadevano giù. Un’ala immensa si sarebbe piantata nel giardino davanti casa; e i corpi… come sarebbero scesi, i corpi dei passeggeri? Una pioggia umana. Il tonfo quando arrivavano a terra. Rabbrividì. Quante possibilità c’erano che quell’aereo esplodesse in quel preciso istante? Aspettò qualche secondo. La sagoma luccicante si allontanò in silenzio. Nessuna esplosione. Il fulmine, il sangue sul lavandino: la morte esce raramente, nella ruota della vita. Nella terrazza della casa davanti comparve un uomo in mutande e canottiera, che teneva una sigaretta in bocca; con la mano fece il gesto del saluto, da una parte all’altra del giardino; lui ricambiò, disegnando un cerchio luminoso con la brace rossa della sua sigaretta. Aveva visto anche lui, l’aereo esplodere in volo? Buttò un’occhiata all’orologio della cucina: 21.38. Una fumata, dunque, durava quattro minuti. Rientrò.
Non capì subito che la voce che sentiva urlare era quella di suo figlio: sembrava molto più adulta, molto più lontana – e invece veniva dal bagno, in fondo al corridoio. Da quanto gridava? Lo chiamava disperato: papà, papà, papà. Corse. Aprì la porta. La piccola galleggiava immobile accanto alle sue Winx; un T-Rex la guardava dal bordo della vasca, gli occhi bianchi, le zampe davanti come in preghiera. Non respira, gridava il grande, non respira più, non respira, e piangeva, con la bocca spalancata, con il dente che gli mancava, con il viso uguale a quello di suo padre. E lui, con il corpo bagnato e inerme tra le braccia, pensò al sangue sul lavandino, all’aereo che cadeva all’improvviso, al cassetto delle sue sigarette; al fulmine che d’estate colpiva le creature della terra, a caso, come un dito cieco e terribile.
Pingback: Racconto: L’ultima sigaretta, di Paolo Za...
Pingback: Recensione: Il giorno che diventammo umani, di Paolo Zardi : MeLoLeggo.it