Recensione: Arrivano i Sister, di Patrick deWitt
Arrivano i Sister… Appena lessi questo titolo, per assonanza mi ricordai di un vecchio telefilm ambientato nell’America dell’800. Arrivano le spose, mi pare s’intitolasse. Certo, basta iniziare a leggere e subito il debole accostamento va via come una granello di polvere in un giorno di vento…
La storia è ambientata nel Far West, nella California di metà ‘800. Charlie ed Eli Sister sono due fratelli che si guadagnano da vivere ammazzando la gente su commissione. Due killer spietati ma anche profondamente diversi tra loro. Charlie è freddo, apparentemente insensibile nell’eseguire gli incarichi. Eli, al contrario, pensa e a volte pure troppo. Uccidere non lo entusiasma, ed è solo il vedere il fratello in pericolo a trasformarlo in un sicario affidabile.
I due ricevono dal Commodore, un potente della zona, l’incarico di braccare e far fuori un certo Hermann Kermit Warm, cercatore d’oro che avrebbe derubato il ricco signore. In realtà, come si scoprirà in seguito, la loro missione avrebbe ben altro scopo.
Eli è la voce narrante. Un personaggio introspettivo e particolare, ma tanto vero quanto surreale, con il suo corollario di timori, dubbi e certezze, sempre sull’orlo del distacco dal credo e dalle convinzioni del fratello maggiore Charlie. La storia acquisisce l’inflessione della sua voce e non la smarrisce più fino al termine.
Finalista al Booker Prize 2011, il romanzo sui due fratelli ruota intorno a loro e all’oro. Certo, perché di mezzo c’è anche la corsa al pregiato metallo.
La micidiale febbre per la ricchezza, vera protagonista della parte finale del romanzo, mostrerà ancora una volta come sia sottile il confine tra il sogno e la misera caduta all’inferno. Il tutto è condito con una mirabolante sequenza di disavventure, incocciando in dentisti imbroglioni, orsi dal pelo fulvo, indiani feroci, boss attorniati da tirapiedi da barzelletta, una megera e una tenutaria di un saloon, malata di tisi, di cui Eli s’innamora invano. Un assortimento di personaggi a volte surreali, eppure così autentici in quel polveroso, vecchio e bastardo West di una volta.
A tratti pare di rivedere scene di qualche film del grande Sergio Leone, con un pizzico di pazzia in più. Anche l’umorismo, a volte latente nelle situazioni ma spesso così forte e immediato che non occorre neppure sforzarsi tanto per gustarlo, viene dosato quasi alla perfezione per stemperare (secondo me riuscendoci appieno) la drammaticità delle scene più violente. Un esempio su tutti?
Leggete un po’ questo breve passaggio:
‹‹Cos’è stato quel rumore?›› ha chiesto.
‹‹Un proiettile che ti ha centrato in pieno››.
‹‹Un proiettile che mi ha centrato dove?››.
‹‹In testa››.
‹‹Non lo sento. E non sento quasi niente. Dove sono gli altri?››.
‹‹Sdraiati accanto a te. Anche loro con un proiettile in testa››.
‹‹Davvero? E parlano ancora? Non li sento››.
‹‹No, sono morti››.
‹‹Ma io non sono morto?››
‹‹No, tu no››.
Come in ogni storia del genere, anche le sparatorie, la violenza e il crudo realismo non mancano. Inoltre il testo è disseminato di momenti più introspettivi e malinconici.
Mescolando il tutto, salta fuori Arrivano i Sister.
Certa critica, negli States, ha paragonato deWitt a un McCarthy umoristico, dopo averlo accostato a Fante e Bukowski per il precedente romanzo Abluzioni (ed. Neri Pozza, trad. di Luca Fusari).
Non so quale dei paragoni possa reggere davvero. Intanto io ci vedo anche un po’ di Paul Auster, ma non lo dite a nessuno… Fatto sta che il romanzo funziona davvero, i personaggi sono credibili, ben costruiti e grondanti del realismo cui ci ha abituato certo cinema del passato, e già questo basta.
A me, di certo.
E credo sia più che sufficiente per incuriosire anche tanti altri, perché non è affatto facile, di questi tempi, scrivere una storia delle vecchie terre di frontiera e conservare la freschezza e la solidità, nonché il fascino che avevano storie del genere tanti anni fa.
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