Recensione: La ricchezza, di Marco Montemarano
La ricchezza è il romanzo vincitore della prima edizione del premio di letteratura Neri Pozza. Questo è un dato di fatto.
Un altro dato importante è che rifuggo spesso dai testi vincitori di premi. Molte volte non mi convincono, li trovo sovrastimati e qualche volta incensati in modo pilotato. Il giudizio su un testo preferisco maturarlo dopo averlo letto, senza condizionamenti vari. E anche in questo caso non potevo fare altrimenti.
Spulciando qualcosa, sono riuscito a trovare sufficienti spunti per incuriosirmi. La storia, di per sé, si svolge e si riavvolge su sé stessa, come spesso capita alle trame che si sviluppano per ricordi mnemonici della voce narrante. Le vicende sono ambientate in parte negli anni ’70 e ’80, intervallati da flash attuali in cui il narratore è costretto, suo malgrado, ad atterrare alla fine di ogni mini viaggio nel passato. Un passato che gli appartiene, ma sempre per riflesso.
Giovanni, il protagonista (leggendo il romanzo però si scopre che a reggere la scena sono anche altri), è un liceale figlio di un ferroviere. Ha un pessimo rapporto col genitore, dovuto a un’incomunicabilità estrema causata soprattutto dal suo atteggiamento. Per sfuggire a questa situazione, si rifugia nell’amicizia che lo lega a due fratelli, Fabrizio e Mario Pedrotti, due opposti. I due fratelli vivono un rapporto conflittuale di cui spesso Giovanni, ribattezzato Hitchcock da Fabrizio, è testimone e tristi… mone. Fabrizio, bello, gigantesco e muscoloso, ha successo con le donne anche grazie alla sua esuberanza fisica, che lo pone in perenne vantaggio rispetto al fratello minore Mario, un ragazzo chiuso che matura dentro sé, nel corso degli anni, un odio che riuscirà a limare solo più avanti, con gli anni. Non ci sono solo loro, in quella casa. C’è anche una sorella, Maddalena, a cui Giovanni si lega mediante un rapporto fatto di sesso e bugie, sotterfugi e passione fisica. I tre sono figli di un onorevole, ricchi e viziati, strani e difficilmente inquadrabili. Ma nonostante ciò, esercitano ciascuno un proprio fascino su Giovanni, bisognoso di confronto verso l’esterno. Le vicende, tra sballi giovanili, viaggi, esperienze estreme e insoddisfazione perenne, si protraggono nel tempo. I ragazzi saranno divisi dalle vicende della vita: i fratelli si disperderanno all’estero, Giovanni andrà a vivere in Germania, prima di rientrare in Italia, con un lavoro ben retribuito che lo porrebbe in una posizione di vita soddisfacente. Appunto… Lo porrebbe… se non fosse per il perenne ritorno in gioco dei Pedrotti.
La ricchezza a cui si fa riferimento non è di certo un bene materiale. Coincide all’infinito con il ritrovarsi, capire i propri sbagli e accettare le cose che ci circondano. Giovanni però non riuscirà mai a staccarsi dai Pedrotti, riuscendo alla fine a comprendere come abbia vissuto un’esistenza che era sì la sua, ma non più di tanto. Il simbolo di questa sensazione è una fotografia in cui egli appare essere un particolare che riempie il vuoto che si crea, fin da subito, tra i fratelli. Più che la vicenda, a colpirmi è stato lo stile dell’autore. Maturo, controllato, scintillante, avvolgente in un modo che non manca mai di affascinare. Non è la storia ad attrarmi, in verità, ma il modo in cui essa viene raccontata. La peculiarità del romanzo non è il romanzo di per sé, che a volte fa vagare il lettore in un viaggio senza direzione (ma potrebbe essere un fatto voluto, e di questo ci si rende conto verso la fine), bensì il linguaggio figurato. Lo stile è pieno di simboli e di un ritmo che non avverte battute d’arresto. Nemmeno nelle ipotetiche fasi di stanca. È una delle poche volte in cui, anziché restare affascinato dal romanzo, vengo catturato dallo stile di scrittura. Ciò non vuol dire che il romanzo sia scadente. Tutt’altro. Ad avercene di prove letterarie così, soprattutto oggi che a scalare le classifiche di vendita sono spesso fenomeni costruiti ad arte e fenomeni da… (e mi fermo qui).
Ben venga, allora, La ricchezza.
In ogni senso… O no?
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