A proposito di Nero Dostoevskij: due chiacchiere con Antonio Mesisca
Oscar è un insopportabile, insopportabile figlio di puttana: ha dalla sua che non si nasconde, almeno non in tutti i sensi; in molti altri invece sì, e fa benissimo, perché già dalle prime battute dà subito l’idea che tutto il mondo o una buona parte lo vorrebbe morto.
Non me ne vogliate se ho subito esordito con un epiteto poco carino, ma a quelli Oscar è abituato, ci sguazza, gli sono familiari, e quelli più indigesti arrivano proprio dalla famiglia, escono dalla bocca di quella moglie ormai insopportabile che controlla ogni suo movimento, ogni spostamento di denaro necessario alla sopravvivenza. In questo caso la sopravvivenza è quella di un uomo inseguito dai debiti, piccole conseguenze di un tempo passato ad alleviare la noia di un matrimonio multimilionario che pure stanca. E in quella cricca che Oscar è costretto suo malgrado a frequentare il tempo si ammazza su un tappeto verde, nella luce soffusa, tra speranze svanite e sguardi sbilenchi, smorfie e molto sudore sulla fronte, soprattutto quando la mano non è dalla tua e tantomeno lo è la sorte. Almeno non completamente.
Una storia dai ritmi serratissimi, dove senti subito il bisogno di capire, l’ansia di sapere cosa accadrà ancora; perché a quella faccia da schiaffi di Oscar Dio, forse sentendosi nominato troppe volte invano, ha deciso di dare più di un’occasione.
La scrittura di Antonio Mesisca, firma di questo geniale Nero Dostoevskij (Scrittura & Scritture), è la più fresca tra quelle intercettate negli ultimi tempi. Noir, con una predilezione per la costruzione ironica, Mesisca riesce a rendere la sua storia piacevolmente credibile e reale, regalando al lettore emozioni vere.
Ogni capitolo è un improvviso salto nel vuoto in cui non ti aspetti di restare imbrigliato. Oscar, il protagonista, sembra uscito da una trama americana, ma non ha le fattezze dell’americano eroe, né altrettanta coscienza. Anzi, è talmente privo di coscienza da finire, paradossalmente, per farsi perdonare da tutti, persino da noi, che finiamo a fare il tifo per lui.
Antonio Mesisca diverte, si diverte e risponde pazientemente alle nostre domande:
Chi è Antonio Mesisca? Come si definirebbe?
Io mi definirei un accanito lettore che vende bulloni per sbarcare il lunario e che una decina di anni fa ha provato a mandare il cosiddetto racconto nel cassetto a un premio letterario nazionale. Per chissà quale scherzo del destino mi hanno selezionato tra i più meritevoli e da quel giorno mi sono detto che, tra un buco e l’altro negli impegni quotidiani, forse valeva la pena continuare a coltivare l’hobby della scrittura.
Com’è nata l’idea del libro e come invece quella dell’accostamento allo scrittore russo?
Un giorno qualcuno mi raccontò che Dostoevskij aveva scritto Il giocatore in una notte, di getto, dettandolo alla sua segretaria, per rivenderlo a una rivista letteraria e ripagarsi i debiti contratti al gioco. Mi impressionò, mi girò in testa per un po’ finché mi decisi a entrare in libreria e comprarmi quel libro. Mi piacque, ma più di tutto mi piacque la sua storia. E poi rimasi colpito dai titoli delle sue opere; c’era una sorta di filo conduttore che si sposava bene con un racconto breve che stavo scrivendo in quel momento. Pensai di usare il titolo di ogni opera per ogni capitolo e lasciarmi guidare da quella traccia. Diventò tutto più semplice e venne fuori Nero Dostoevskij. Non so quanto ci sia di reale nella storia della stesura de Il giocatore, ma mi piace pensare che andò proprio in quel modo.
Secondo lei si può assolvere una faccia da schiaffi come Oscar Peretti, il protagonista del romanzo?
Credo che i personaggi letterari non debbano mai mirare all’assoluzione e da lettore non mi sono mai posto il problema di fare da giudice a da avvocato a un protagonista. Morale, giustizia e rispetto perdono il loro senso assoluto se rapportati alla narrativa.
La letteratura deve essere prima di tutto amorale. Il Peretti è un antieroe e il ruolo principale di un personaggio di questo genere è proprio quello di stare simpatico tra le righe di un libro, odiato nella realtà. Questa non è la vita vera e Peretti lo assolviamo.
In fondo il suo Oscar ci è o ci fa? O meglio, si può davvero arrivare al limite rischiando di perdere tutto, anche se stessi?
Certo, si può. Se ne legge tutti i giorni sui giornali. Ho scelto come sfondo alla storia il gioco d’azzardo proprio perché affascinato dalla disperazione che riesce a insinuare in un essere umano. I vizi, le debolezze ti rimbambiscono, ti sfiduciano al punto che passi il limite senza nemmeno analizzarne le conseguenze. Arrivi a mettere sul piatto tutto quello che puoi perdere. In letteratura è molto affascinante, nella vita vera è spaventoso.
Quanta fatica c’è dietro a una storia?
Tantissima, diffiderei di chi dice altrimenti. Inventarla penso sia la parte più facile, metterla sulla pagina è una sfida che richiede impegno e costanza. Io mi considero un pigro, per Nero D. mi ci sono voluti ben sei anni. Ma la parte davvero estenuante e difficoltosa è trovare qualcuno che ci creda, in quello che hai fatto. La ricerca di accoglienza può demoralizzare al punto da decidere di lasciare perdere. Io consiglierei a chiunque sia in possesso di un manoscritto di affidarlo alle mani esperte di un agente e lasciarlo libero nella ricerca di un editore. Spenderete qualche soldo, ma ne guadagnerete in salute. L’editoria è piena di sorprese e io mi considero fortunato ad essere capitato con l’agente giusto, ma soprattutto in una casa editrice seria e determinata.
Si può vivere di scrittura in Italia, secondo lei?
Credo si possa e immagino sia durissima arrivarci, pertanto credo che chi ce la faccia sia da ammirare e rispettare. E se lo meriti pienamente.
C’è un autore che l’ha ispirata? Mi dica, magari proprio Dostoevskij?
Ci sono molti autori che mi piacciono e tanti che, volente o nolente, mi ispirano. Più di tutti direi un francese che si chiama Nan Aurosseaux che scrive con un ironia e una leggerezza magnifiche. Etgar Keret è un altro scrittore che mi piace molto; i suoi racconti brevi sono neri e commoventi allo stesso tempo, autentiche perle. Tra gli italiani direi Pino Cacucci, le sue storie mi attraggono sempre.
Per quanto riguarda Dostoevskij, direi che abbiamo un rapporto travagliato, non amo troppo i classici.
Ha un genere che predilige?
Il noir direi che è il genere che non abbandonerò mai. Mi piacciono le storie nere e riuscire a raccontarle con ironia e facendo magari anche sorridere è una bella sfida. Mi affascinano molto i racconti brevissimi, ne ho da parte qualcuno e spero in futuro di avere spazio da dedicare anche a quel genere.
Cosa fa quando non scrive? Pensa già alla prossima storia?
Io scrivo pochissimo e senza un metodo. Ribadisco, sono un pigro, preferisco leggere. E poi tra lavoro e famiglia è difficile trovare il tempo necessario per scrivere. E talvolta quando c’è il tempo manca l’ispirazione.
Ho già parte di una storia nuova su carta ma la stesura va a rilento. Spero entro il prossimo anno di ultimarla per sottoporla alle mie editrici.
Ha poi finito di leggere Delitto e castigo?
Macché, sono fermo a pagina 36. Prima o poi ci rinuncio.