Abbiamo sempre vissuto nel castello, di Shirley Jackson
Abbiamo sempre vissuto nel castello, il romanzo di Shirley Jackson uscito per Adelphi con traduzione di Monica Pareschi, immerge il lettore in uno stato di angoscia e di perdita di ogni capacità di lettura della realtà che viene raccontata. Con semplicità e cinismo esistenziale, l’autrice presenta una dimensione priva di ogni riferimento tipico dei racconti ancorati a uno sviluppo narrativo che conduce a un chiarimento finale rassicurante per l’equilibrio interiore di ognuno di noi. La peculiarità narrativa di questo libro, a parer mio, risiede proprio nello stato confusionale in cui ci si ritrova sin da subito, orfani degli strumenti di codificazione della trama, in una perenne frustrazione che non trova nelle pieghe della storia alcuno sbocco catartico o di distruzione.
Attenzione: la recensione svela passaggi importanti della trama.
Constance e Mary Katherine sono due sorelle della famiglia Blackwood, famiglia di tradizione aristocratica e appartenente ai piani alti della scala sociale e, per questo, oggetto di invidia e sempre protagonista id una dimensione diversa, totalmente staccata dalla vita del paese o del villaggio. L’ambiente ricercato e di prestigio in cui hanno sempre vissuto i membri della famiglia ha fatto da sfondo a un clima di tensione sociale provato dalle classi meno abbienti della comunità.
Il tempo raccontato è un presente perenne, lento nel suo incedere e dominato da un’apatia esistenziale in cui galleggiano i protagonisti della storia, la quale trova un sussulto nei continui rimandi a un preciso episodio del passato risalente a sei anni prima rispetto ai fatti narrati e nell’irruenza violenta del cugino Charles, figura estranea al contesto emotivo paludoso in cui vivono i protagonisti.
Il passato, dipinto con tinte fosche poiché dominato dalla tragicità dell’annientamento di quasi tutta la famiglia, risplende con la sua oscurità rispetto a un presente che non riesce a trovare una sua collocazione temporale e un suo significato, annullato in un vuoto cosmico che avvolge l’esistenza delle due sorelle e dello zio Julian.
L’autrice non vuole descrivere la disperazione, il rimorso, il senso di colpa che, secondo i canoni tradizionali, dovrebbero accompagnare l’autore dell’azione omicida verso una sua espiazione purificatrice; ciò che viene raccontato è invece la stanca ripetizione di gesti e attività quotidiane dei tre sopravvissuti.
Constance, la sorella maggiore, sin da subito incarna il ruolo della protettrice della sorella minore, che vive in simbiosi con il suo gatto e si dimostra osservante delle regole di comportamento dettate dalla sorella.
Lo zio Julian è il personaggio che, in questa totale dimensione anaffettiva, comunica emozioni e, nonostante la vecchiaia e il cagionevole stato di salute, cerca di dare un senso alla tragicità dell’evento di sei anni prima: il veleno, strumento di odio e di disperazione, ha mostrato il suo volto angelico e truffaldino ed è portatore di una brutale verità, ossia la rottura della fiducia intrafamiliare che irrompe nel momento di massima intimità quale può essere la condivisione del cibo attorno a un tavolo.
Il lettore è inizialmente portato a credere che il vertice di questo triangolo ideale sia Constance, che conduce il gioco quotidiano, impone la propria volontà nel disbrigo delle faccende domestiche e accudisce con amorevole dedizione gli altri membri della famiglia. Invero, nel momento in cui l’arrivo del cugino Charles irrompe e destabilizza l’equilibrio esistente, emerge in tutta la sua chiarezza il delirio di onnipotenza di Mary Katherine che, con meticolosa perfidia, cerca in tutti i modi di allontanare quella figura che, almeno per un po’, sembra rappresentare l’ancora di salvezza a cui Constance vuole aggrapparsi per sfuggire a quell’odiosa vita intramuraria.
Poi irrompono nella storia l’incendio e l’arrivo dei membri della comunità, che inducono il lettore a credere nell’avverarsi di un rito purificatore: l’ubriacatura e l’eccitazione che si impadronisce dei vari personaggi accorsi, mentre le fiamme distruggono parte della casa, dovrebbe trovare il suo punto di chiusura nella ferocia omicida nei confronti delle due sorelle ma, come se fossero protette da uno schermo immaginario, queste riescono a trovare un rifugio e a salvarsi. Surreale la descrizione dei momenti successivi all’incendio: il mattino seguente Constance e Mary Katherine rientrano nella loro casa, oramai priva del piano superiore e della soffitta, e con lucida follia decidono di riprendersi il loro presente perenne scandito da momenti che si ripetono stancamente nella loro meccanica banale.
Anche in questi frangenti, si ripropongono i vecchi schemi: la ferma volontà di Constance di ripulire e rispristinare il loro ambiente da una parte, l’impegno di Mary Katherine a ridefinire un netto confine tra loro e il mondo circostante dall’altro.
Il rito della purificazione non compie quindi la sua missione e tutto collassa in un presente che inesorabilmente riprende il suo lento scorrere. Le due sorelle finiscono per crogiolarsi in quel tempo presente e duraturo che non possiede la carica emotiva del tempo futuro, fatto di speranze e di cambiamenti, ma che condanna a una paralisi emotiva che loro stesse desiderano come condizione permanente.
Il romanzo, senza dubbio, lascia al lettore un senso di angoscia e di vana attesa di un finale che non pone un punto di chiusura in quanto fagocitato dal vero dominatore di tutto e di tutti, ossia il tempo, che inganna e neutralizza ogni forma di eventuale cambiamento.