Circe, di Madeline Miller
« Ecco il pensiero: tutta la mia vita non era stata che tenebre e abissi, ma io non ero parte di quelle acque scure. Ero soltanto una delle creature che le abitavano.»
Circe è tante cose. È una ninfa, una dea titana, una maga, ma soprattutto una donna. Una creatura che non si è mai sentita a casa nel nero palazzo sotterraneo di Elios, dio del Sole e suo padre, e nel quale ha ricevuto ben poco affetto.
Come i suoi fratelli, Circe è una dea dorata, con grandi occhi gialli simili a quelli di un gufo; ma, al contrario dei fratelli, è sgraziata, sensibile e ingenua, diversa dalle altre ninfe dai passi leggeri che attraversano le stanze del palazzo di suo padre, e ancor meno importante. Possiede una voce da mortale, flebile come un soffio di vento, e non ha alcun talento o dono particolare, fino a quando non scopre la pharmakeia, la magia, che solo lei e i suoi fratelli, Pasifae, Perse ed Eete, possiedono.
Questo monologo interiore parte dai primi ricordi di Circe e ripercorre i molti secoli che ha vissuto e i molti mortali incontrati, che per una dea «sono come costellazioni che sfiorano la terra solo per una stagione».
Punita da Zeus per aver confessato i suoi poteri e gli errori che ne sono derivati, con un coraggio che i suoi fratelli non hanno mai avuto, Circe viene esiliata su un’isola deserta ed è lì che la sua vita comincia davvero.
Leggendo Circe, il romanzo di Madeline Miller uscito per la Sonzogno (trad. di Marinella Magrì), si ha la sensazione che il tempo non esista, tanto poca è l’importanza che vi viene attribuita. L’ampiezza della visione divina del tempo, che di per sé è soltanto una somma di vite mortali, è resa perfettamente dall’autrice, specie dopo l’esilio di Circe su Eea, in cui in poche pagine si percepisce lo scorrere di secoli e stagioni fino al resoconto successivo.
I suoi amori umani, da Dedalo a Odisseo, ciò a cui ha assistito, come la nascita del Minotauro, figlio di sua sorella Pasifae, nonché ciò che ha subito suo malgrado, rendono Circe dura, acuminata. È fiera della sua spietatezza, che indossa come un’armatura, ma continua a nascondere al suo interno la comprensione umana che la rendeva così aliena ai suoi simili divini.
Madeline Miller ci restituisce una figura femminile nuova, riscattata dall’oblio e dalla vergogna, e un punto di vista totalmente rivisitato su personaggi classici che hanno popolato per anni i nostri studi e la nostra immaginazione.
La sua Circe ha una fibra d’acciaio e un carattere spigoloso e selvatico. Una donna forte poiché è stata resa forte dagli eventi e dalle conseguenze dei suoi errori, nessuno dei quali le è mai stato perdonato.
La scrittura ha il sapore di qualcosa di antico e selvaggio, mischiato al caldo profumo di una spezia lontana. La trama, che si sviluppa di poco più di quattrocento pagine, è densa e priva di alcun tipo di pausa o rallentamento tra un evento e l’altro. Si tratta di un libro molto diverso dall’esordio della Miller: La canzone di Achille è encomiabile, ma Circe risulta più umana e vicina ai lettori.
Madeline Miller, che possiede un dottorato in lettere classiche alla Brown University e insegna drammaturgia teatrale dei testi antichi a Yale, riesce a scrivere senza defraudare i personaggi delle loro caratteristiche epiche e mitologiche, e senza addolcire o modernizzare usanze, credenze e luoghi descritti, muovendosi con una delicatezza e un rispetto rari in questo genere.