Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, di Nadia Urbinati
Il tema che più mi interessa è invece come assicurare che il foro pubblico delle idee rimanga un bene pubblico ed eserciti il suo ruolo cognitivo, di dissenso e di controllo, se l’industria dell’informazione, che ha tanta influenza sulla politica, «appartiene, in diverse parti del mondo, a un numero relativamente ristretto di individui privati».
Il tema attorno a cui ruota il libro di Nadia Urbinati, Democrazia sfigurata (Università Bocconi Editore), si pone al centro di un acceso dibattito che da sempre appassiona gli studiosi di teoria politica. Inoltre, nel descrivere le forme che può assumere un sistema democratico, l’autrice fornisce al lettore le chiavi di lettura per interpretare gli sconvolgimenti politici che interessano l’orizzonte partitico ed istituzionale della nostra repubblica.
Il perno della questione è rappresentato dalla tenuta del meccanismo funzionale della democrazia rappresentativa che, come affermato dall’autrice, si muove su un delicato sistema diarchico fondato sulla volontà politica e sull’opinione. Il governo, mediante l’opinione pubblica, costituisce l’aspetto fondante del modello democratico rappresentativo nel quale ogni singolo cittadino forma il proprio convincimento politico all’interno del foro delle opinioni: in particolare, secondo la Urbinati, l’opinione svolge una funzione cognitiva di comprensione del politico, una funzione politica finalizzata a costruire il consenso e il dissenso, e infine una di tipo estetico, ossia che mira a rendere trasparente e pubblico ciò che è politico. Tale triplice funzione, in un sistema democratico rappresentativo e costituzionale, si poggia su di un delicato equilibrio che serve a garantire un libero accesso al foro delle opinioni da parte di ogni cittadino il quale, godendo di tale libertà, forma il proprio temporaneo convincimento fondato su scelte di tipo razionale e non emozionale, al fine di attualizzarlo mediante l’esercizio del diritto al voto. È quindi il sistema diarchico, ossia la compenetrazione tra volontà e opinione, a garantire il buon funzionamento di una democrazia: la volontà si costituisce mediante il proceduralismo che segna il processo dell’elezione che porta a scegliere, tra i vari candidati, i rappresentanti che saranno i detentori del potere decisionale, mentre l’opinione occupa spazi extra-istituzionali e si forma nel foro delle informazioni, oggigiorno dominato da un’evoluzione tecnologica che vede Internet come risorsa primaria a cui il singolo cittadino si rivolge per costruire il proprio consenso o mutare un proprio precedente convincimento e trasformarlo in accesso dissenso.
Spoliticizzare la democrazia allargando la sfera delle decisioni imparziali, per mezzo dei tribunali, delle commissioni di esperti, dei gruppi deliberativi e delle authority apolitiche su temi-chiave: questa è la risposta di quello che definisco platonismo democratico, che equivale all’appropriazione della politica democratica da parte della filosofia e rappresenta la sfida più radicale e persistente a questa forma di governo, anche quando è fatta in nome della democrazia stessa, per renderla migliore. Sia il populismo che il plebiscitarismo fanno dell’opinione pubblica un gioco di parole e d’immagini che trasforma la politica in un processo di verticalizzazione del consenso, pur affermando senza sosta di voler avvicinare la politica alla gente e la gente alla politica.
Il volume affronta le sfide e i tentativi di superamento del modello democratico rappresentativo che, per l’appunto, subisce delle forze endogene finalizzate non a un cambio di regime ma a una sfigurazione dei suoi elementi identificativi. Invero, il fenotipo della democrazia rappresentativa è da ricercare nella scambievole funzione ricoperta dalla volontà e dall’opinione, elementi che si compenetrano senza mai fondersi. Il fenomeno che viene tratteggiato assume una pericolosa fisionomia in quanto non siamo in presenza di forze esterne al sistema ma estreme, che confinano con regimi di tipo autoritario.
Per prima cosa l’autrice scrive del tentativo portato avanti dai sostenitori del “neo-platonismo democratico”, i quali sostengono che la decisione politica non può essere affidata a un’assemblea elettiva di tipo parlamentare: la deliberazione è infatti soggetta al meccanismo della maggioranza e questo, senza dubbio, non garantisce una scelta razionale e competente ma solo maggioritaria, quindi espressione di interessi particolari e non generali. I fautori della democrazia epistemica tendono a voler aumentare lo spazio impolitico a discapito di quello politico. Tali studiosi, così come descritto dalla Urbinati, focalizzano la loro attenzione sul superamento del principio della maggioranza che rappresenta il criterio di formazione di una decisione politica in quanto porta all’esaltazione della partigianeria e della funzione tra il politico e gli interessi particolari portati avanti dalla maggioranza parlamentare in quel momento egemone.
Il modello di democrazia epistemica, si poggia invece sulla creazione di organismi extra-istituzionali (comitati scientifici, authority, università) chiamati a elaborare scelte razionali e competenti che servano a fornire una soluzione competente al settore politico: una decisione politica non deve essere espressione di una determinata maggioranza ma perseguire il soddisfacimento di un interesse generale che riguarda l’intera società, adottando così l’unica e razionale soluzione scevra da ogni forma di partigianeria. Alcuni esponenti della teoria epistemica sostengono che occorra distinguere il momento della deliberazione da quello della decisione: gli organismi scientifici sarebbero chiamati a discutere e a fornire le soluzioni migliori da adottare, mentre le assemblee parlamentari dovrebbero approvare, tramite maggioranza, la soluzione elaborata dagli organismi composti da tecnici e persone competenti. Un’interpretazione, questa, che l’autrice critica fortemente, sostenendo come ogni decisione politica debba essere frutto di una maggioranza che esprima la volontà di una certa parte della popolazione. Il proceduralismo, in quanto architrave del modello democratico rappresentativo, garantisce il mutamento sia delle decisioni politiche, sia dell’opinione pubblica: l’eletto sente il peso della temporalità in quanto il suo operato è soggetto a una costante forma di accountability da parte dell’elettorato, che si serve del proprio diritto di scelta nel ritualismo delle elezioni.
Oltre ad un modello di democrazia epistemica, la Urbinati tratta del pericolo proveniente da una forma di potere populista che, a partire dall’esperienza nord-americana, si sta espandendo sul fronte europeo. Il populismo tende a stravolgere la diarchia volontà/opinione poiché assoggetta la formazione dell’opinione stessa a un’ideologia egemone. Occorre tracciare una distinzione un movimento di protesta da un’espressione del potere populista.
Il primo è caratterizzato da una ideologia polarizzata e da una critica verso gli organi rappresentativi, ma perché assurga a divenire un fenomeno populista è necessario che vi sia una organizzazione verticistica e che i suoi leader aspirino a occupare il governo delle istituzioni. Tratti che mancano, ad esempio, nel movimento americano Occupy Wall Street, oggetto di studio da parte di esponenti della teoria politica. Il populismo è un fenomeno endogeno alla democrazia: si sviluppa a partire dalla competizione elettorale e tende a polarizzare l’opinione pubblica. La visione populista contrasta con il pluralismo in quanto mira a condensare il popolo sotto un’unica ideologia. Il passo decisivo è la formazione di un leader attorno al quale si coagula l’intera società. Il movimento di protesta popolare rimane quindi una forma di movimento, mentre il populismo una forma di potere, portando alla sfigurazione della democrazia e all’abbattimento del regime diarchico, senza distinzione tra volontà e opinione. Il populismo presenta alcune caratteristiche: in particolare, contesta il concetto di rappresentanza intesa come inclusione nelle istituzioni di una pluralità di segmenti della società poiché deve formarsi una omogeneità ideologica che porta al superamento dello spazio occupato dai partiti come intermediari tra Stato e società civile. Demagogia e populismo sono pertanto fenomeni che hanno origine all’interno del sistema democratico. È Aristotele che ci aiuta a comprendere il graduale passaggio che può condurre la società a subire forme di potere demagogico o populista. La demagogia non rappresentava infatti una forma di tirannia: per Aristotele la democrazia assumeva diverse forme, dal governo della legge, della maggioranza fino ad arrivare a un’egemonia della maggioranza che, qualora governata da un leader unico, sfociava in tirannia, fuoriuscendo in tal modo dal confine del regime democratico. Allo stesso modo della demagogia, il populismo si alimenta all’interno della democrazia sfruttando la polarizzazione ideologica e l’erosione della classe media: quando il numero di persone appartenente alla classe povera aumenta, allora i pochi ricchi iniziano a predisporre strategie per contrastare manovre volte a pregiudicare i loro interessi. Il malessere sociale viene cavalcato da un leader che vuole conquistare il potere al fine di omogeneizzare la società sotto l’egida di una ideologia e per questo la maggioranza, espressione di quel sentire, diventa intollerante nei confronti della minoranza che viene annullata, scardinando in questo modo il sistema diarchico tipico della democrazia rappresentativa. La politica populista è la forma più corrotta della democrazia.
L’autrice sostiene infatti che lo studioso argentino non interpreti correttamente il pensiero gramsciano teso a distinguere tra cesarismo rivoluzionario e dispotico: il potere populista vuole annientare la diarchia democratica e imporre una visione mono-archica, in quanto la volontà del popolo si identifica con le istituzioni. Esso diverge dalla democrazia poiché considera il singolo come parte del tutto, inglobato nella maggioranza. Il sistema democratico è invece acefalo e non è volto tanto a una concentrazione del potere quanto a una sua diffusione: esso vuole garantire il diritto di parola di ogni singolo individuo, e lo fa preservando la sacralità delle procedure; infine, cerca di influenzare anche lo spazio extra-politico al fine di garantire l’esercizio di diritti individuali in settori caratterizzati da deficit democratico. La democrazia plebiscitaria non mira ad annullare la diarchia democratica in quanto accetta il meccanismo del voto e la formazione di un’opinione pubblica ma – e questa è la sua peculiarità – dilata oltremodo la funzione estetica rispetto a quella cognitiva dell’opinione stessa. Il popolo si trasforma da attore politico collettivo in spettatore passivo. In questo il plebiscitarismo si differenzia dal populismo: mentre quest’ultimo mira ad esaltare la volontà egemonica del popolo, il primo tende a garantire la trasparenza del leader. È in America si può osservare lo sviluppo di attenzione per la democrazia plebiscitaria: i fattori che hanno contribuito a tale fenomeno sono la debolezza del sistema partitico, la videocrazia, la debolezza del parlamento e la forza del potere esecutivo dovuta alla crisi economica e all’emergenza terroristica. Mentre il populismo tende alla partecipazione e movimentazione popolare il plebiscitarismo rende la società del tutto passiva, appunto spettatrice della vita del leader. La democrazia plebiscitaria crea un rapporto diretto tra il popolo e il leader, che cerca l’acclamazione della sua persona in cambio di una continua trasparenza. Il populismo può comunque aprire le porte a una forma plebiscitaria del potere perché suo obiettivo è quello di incoronare il leader. È fondamentale al riguardo il ruolo delle istituzioni democratiche, che pongono argini allo strapotere di un’unica persona. Importante è valutare la forma che riveste l’acclamazione del popolo. Il governo mediante l’opinione si esprime mediante il suffragio o mediante l’acclamazione. Il plebiscitarismo contrasta il sistema del voto come scelta individuale e razionale, contrasta il proceduralismo tipico della democrazia rappresentativa. Schmitt, in particolare, sosteneva che il popolo è un’entità organica a cui occorre una guida che incanali l’irrazionalità che lo caratterizza: il singolo, pur essendo portatore di una sua razionalità, nella massa si uniforma alle emozioni irrazionali che vengono alimentate dal leader, carismatico e acclamato. La democrazia plebiscitaria contrasta la proposta di legge avanzata in Parlamento perché espressione di un singolo o di una minoranza: in questo caso, la forma plebiscitaria radicalizza la diarchia democratica, ossia la volontà è quella espressa dall’acclamazione e l’opinione si identifica con la reazione emotiva della massa. Il plebiscitarismo rifugge da ogni conflittualità politica tipica del proceduralismo democratico. Al riguardo, l’autrice richiama il valore in sé della democrazia procedurale la quale, senza dubbio, non garantisce delle decisioni politiche competenti e razionali o il diretto contatto tra il popolo e il leader egemone, ma preserva il fulcro del sistema democratico rappresentativo che consiste nella rivedibilità delle decisioni e in una costante attività di controllo del cittadino sull’operato della classe politica. Pertanto, secondo la conclusione a cui giunge la Urbinati, risulta fondamentale preservare il modello democratico da ogni pericolo di alterazione dei suoi connotati identificativi. Per far questo, è necessario preservare un foro delle opinioni del tutto libero da poteri economici che possano dirottare il convincimento politico dei cittadini verso interessi e visioni che sono forzatamente espressione di interessi legati a una cerchia ristretta di persone appartenenti al polo dei più abbienti.