I figli del male, di Antonio Lanzetta
Avrebbe volentieri fatto un passo indietro sul peso di quella gamba arresa, sul peso di una vita poggiata sulle spalle come un bagaglio ingombrato di ricordi, come un’estate da ricordare e poi chiudere in un cassetto da non riaprire più, ma non è nella sua natura. Damiano è lo sciacallo, lo sciacallo con l’anima e il corpo mappati dalle ferite, lo sciacallo che delle vittime che passano dalle sue pupille e restano tra i suoi fogli potrebbe e vorrebbe fare a meno volentieri, perché le ferite e i ricordi pulsano senza sosta e non smette di pulsare il cuore, che anche ricoperto di ferite sembra schizzare fuori dal petto davanti all’ennesima notte che lo inchioda davanti a una nuova realtà color rosso sangue e a un nuovo dolore da decifrare. Non può fare passi indietro, Damiano, perché c’è troppo dentro l’ennesimo caso e lui, lo scrittore immerso nella cronaca, alla puzza della morte non può arrendersi ancora.
“Lui vede” è il messaggio che tira i fili unendo le vittime al presente e al passato come un filo spinato che attraversa il tempo, cicatrici che si riaprono squarciando i ricordi e vibrando di sete sporca di sangue. Tornano ne I figli del male (La Corte editore), di Antonio Lanzetta, amici e ricordi di un passato troppo vivido. Tornano continuando, proseguendo il cammino in un percorso diverso, eppure con la stessa cruenta modalità. Una scia tortuosa che ricopre Castellaccio di inquietudini, con uomini e ombre che passano da un’estate all’atra, da un mondo lontano nel tempo, in una ricostruzione maniacale che riesce a mantenere lo stesso, palpitante ritmo fino all’ultima pagina.
E con ogni pagina aumentano i battiti, ci si avvicina alla fine e alle origini di un male che sa insinuarsi nella terra e sgorgare dalle viscere, tra i sassi illanguiditi di torrenti; noi lettori come spettatori immobili di vite piegate, spezzate, sofferte. Ogni personaggio ha una sua dolorosa collocazione, e una ragione per ogni sua azione. E Lanzetta si riconferma autore dalle capacità superiori in una ricostruzione minuziosa di fatti e volti e sensazioni che non lasciano sfuggire alcun dettaglio. Ritmi serratissimi e salti temporali, personaggi crudi e duri, la scia di morte e sangue legate dalla vendetta e dalla ricerca di una pace nascosta tra le pieghe di verità amarissime. È una lotta senza fiato quella attraverso cui Lanzetta ci guida per dipanare la matassa e giungere alla verità che, per chi ha già vissuto le atmosfere de Il Buio Dentro (La Corte Editore), sarà emozione ancora più forte.
Mimì De Martino aveva lasciato tre cose in eredità all’unico nipote: una vecchia casa ora disabitata a Castellaccio, un tirapugni rubato ai soldati americani quando era ragazzino e il buio dentro.
È da qui che dobbiamo partire: dal dolore che non scende mai a patti con la vita, non sceglie le sue vittime a caso, e lega vite, come lega noi alla pagina. Sotto la carne, ogni parola è un’evocazione che squarcia. È così che Antonio Lanzetta dipinge la vita sospesa nel tempo di un romanzo, in un crescendo di sentimenti, in più tempi. La padronanza della scrittura con cui costruisce la narrazione accompagna il lettore in prima persona attraverso i suoi luoghi, tutti i luoghi.
Si ritorna così alle vite di quei ragazzi, a quella lontana estate con le bici lasciate al sole, lanciate nel baratro di una realtà troppo cupa, e rimaste testimoni di macerie difficili da spazzare via. Le parole prendono forma, si toccano, si annusano, si sentono sotto le dita fondendo paura e rabbia.
“Lui vede” è presenza che si srotola tra le righe, lui preda e cacciatore, braccato in una ricerca sporca di sangue innocente e ricordi infantili che quell’innocenza non avevano avuto più tempo di viverla. Un cerchio, con una storia dalle immagini vivide come quelle di un film che giunge a compimento dopo una scia di dolore infinito, rendendo giustizia di tutte le cose, lavando via il dolore impresso a caratteri cubitali su muri incrostati e su cuori mai arresi.