Il ritorno del Budda: i girotondi mentali di un’epoca che non c’è più
Nella Parigi degli anni ’30 del secolo scorso un uomo molto ricco viene trovato morto, colpito alla nuca da una pugnalata. Viene accusato del delitto uno studente russo – il protagonista nonché voce narrante. Il giovane è uno spiantato e per di più soffre di tremende allucinazioni, e la sua unica colpa è stata quella di aver incontrato per combinazione la vittima e, la sera del delitto, di essere l’ultimo ad aver visto in vita il defunto – a parte l’assassino, s’intende, nel caso non fosse davvero stato lui a commettere il delitto.
Nella parte iniziale si ha quindi l’impressione di essere capitati nel bel mezzo di quel tipo di vicenda definita, nel senso comune, “kafkiana”.
Kafka permea e pervade il tratto, l’angoscia delle sensazioni e, non ultimo, è intimamente collegato a quel senso di estraniazione dalla realtà che s’impossessa del narratore, di colui che deve far di tutto per evitare gli effetti di una vicenda assurda in cui, appunto, è capitato per caso.
I fatti, le circostanze, come messe apposta in un certo ordine, sono tutte contro di lui. Eppure, la vicenda viene abilmente rovesciata dall’autore.
Ma non dico altro…
Potrei rovinare la lettura…
Sovente, l’atmosfera è fumosa e onirica:
…Morii – a lungo ho cercato le parole per descrivere quanto mi accadde e infine mi sono convinto che nessuna delle categorie della mente a cui ero solito ricorrere me ne avrebbe fornito una definizione e che quella meno distante apparteneva proprio alla sfera della morte…
Che dire? Un inizio insolito.
Il giovane protagonista entra in contatto con imbroglioni e profittatori, ma anche con l’amore nell’assoluto profumo dell’infatuazione – cosa, d’altra parte, cui lo espone proprio il suo problema di fervida e pericolosa immaginazione.
La morte del milionario pare associata alla sparizione di una preziosa statuetta che ritrae un Budda in posizione insolita rispetto alle comuni raffigurazioni – la statuetta lo riproduce, infatti, in posizione eretta.
Il tema poliziesco, a dire il vero, pare un po’ tirato e tenuto a mo’ di appoggio per gli aspetti riflessivi; questa sensazione va e viene, nel corso dello sfogliar di pagine.
Pur accendendosi quasi nel finale, in una sorta di inevitabile resa dei conti, il testo pare non godere di grandi fiammate e scivola via. La strada percorsa è senza dubbio erta, difficile.
Dicevo di stile e di Kafka.
Ma non è solo Kafka.
Nello stile di Gazdanov paiono avvicendarsi anche altri. Molto esistenzialista nello schema, Gazdanov a mio immodesto avviso somiglia a “qualcosa” di Simenon, a “qualcosina” di Proust e “poco” a Camus e Nabokov, cui pure è stato da molti accostato.
La sua scrittura è a volte fredda e dispersiva, a volte però prende e sembra volerti condurre chissà dove.
La storia vaga nei bassifondi della Ville Lumiére e riflette l’essenza della vita da esiliato, qual era l’autore – in Francia dal 1920, Gazdanov dovette svolgere molti mestieri non sempre appaganti per sbarcare il lunario.
Ma c’è anche una invadente sensualità, una vena filosofica calda e multicolore che prende il lettore per mano e lo fa avventurare in un perfido labirinto.
È una riflessione sulla vita, sull’inganno (molteplice e tirato fino alle estreme conseguenze, come si potrà scoprire leggendolo), sulla falsità di certe visioni del reale che sembrano, a un primo sguardo, assolute.
Non un testo memorabile, Il ritorno del Budda, ma merita di certo una lettura. Si astengano quelli che cercano una trama definita e lineare, questo romanzo potrebbe non fare al caso loro. Al contrario, chi ha appetito di altro, chi è pronto ad assaporare una scrittura fluente come una lunga chioma, può accomodarsi.
Il pranzo è servito.
Con delitto.