I nomi epiceni, di Amélie Nothomb
La persona che ama è sempre la più forte.
Claude e Reine. Due esseri umani fatti l’uno per l’altra; due speculari, l’altra metà della mela.
Cinque anni insieme e ogni giorno come se fosse il primo.
Se il lettore si fermasse al primo capitolo de I nomi epiceni, ultimo romanzo di Amélie Nothomb (Voland, trad. di Isabella Mattazzi), potrebbe immaginare il preambolo di un’emozionante, struggente storia d’amore.
Ma la scrittrice belga ci ha abituati a volgere lo sguardo sempre oltre lo specchio della realtà, a sprofondare nelle viscere dell’animo umano, nelle stanze più profonde degli istinti primordiali, dei sentimenti assoluti, delle emozioni totalizzanti.
Con il suo stile poetico ed ammaliatore, minimalista ed elegante, Amélie Nothomb torna a scrivere di un tema a lei caro: la crudeltà umana e le sue conseguenze.
Non mi soffermerò a svelarvi oltre della trama de I nomi epiceni, perché se avete letto almeno una volta nella vita un’opera di Amélie Nothomb già sapete che ogni sua storia è un lungo, puntuale susseguirsi di colpi di scena, e che ogni anticipazione altro non è che un’occasione persa per il lettore nel mondo della scrittrice.
Se invece vi siete imbattuti per la prima volta nell’opera di una delle più premiate autrici contemporanee, tradotta in oltre 45 lingue, sappiate che I nomi epiceni è la storia di una fredda, minuziosa e implacabile vendetta lunga una vita; un castigo efferato che colpirà tanto la vittima designata quanto – in maniera più spietata – l’artefice del piano e le comparse che costui andrà assoldando sul suo cammino.
Un romanzo duro, che vi metterà alla prova per la sua spietatezza, tanto semplice quanto umana.
Non gli passa.
È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. Perché? Perché la collera è preziosa, protegge dalla disperazione.