Il paradiso degli orchi, di Daniel Pennac
Lo scrivo con titubanza perché è un’ammissione in piena regola: non avevo mai letto Pennac. Per motivi stupidi, ammetto anche questo. Anni fa qualcuno, parlandomene, lo aveva definito il Benni francese, e a me, che adoro Benni, non era andata giù. Quest’anno però Il paradiso degli orchi si è insinuato in casa per mano di un amico, iniziando dapprima a farsi strada nel mio immaginario con quei tre orchi e il cane in copertina e catturandomi infine quando, qualche giorno fa, avevo bisogno di una lettura da portare con me. Così, mentre la folla dell’autobus mi carpiva in quella calca di corpi dell’ora di punta, Pennac lo faceva col suo velo da sposa. Ve lo ricordate? Il romanzo inizia così: “La voce femminile si diffonde dall’altoparlante, leggera e piena di promesse come un velo da sposa”. Una mancanza di peso così esatta a cui è difficile opporsi (un grazie doveroso alla traduttrice, Yasmina Melaouah), una leggerezza del linguaggio che mi ricordava in qualche modo il Calvino delle lezioni americane, perché il mondo di Pennac non aveva affatto l’impressione d’essere di pietra.
E di fatto Pennac non diventa di pietra mai: pur trattando di assassini e fatti piuttosto violenti e sanguinosi, il mondo della famiglia Malaussène è tanto spigliato e non convenzionale quanto lo stile narrativo che lo descrive, vivido a tal punto da dare l’impressione d’essere immersi nei colori.
Per chi di voi non l’avesse ancora letto (sarò mica stata l’ultima? Nuove generazioni, fatevi sentire), la storia ha per protagonista Benjamin Malaussène, giovane trentenne di professione capofamiglia e capro espiatorio, dove per famiglia si intendono tre sorelle e due fratelli e una madre sempre in viaggio, mentre per capro vi lascio il piacere di scoprirlo da voi. Tutto inizia con un’esplosione nel grande magazzino e un morto, ma il seguito non è tanto più tranquillo: altre bombe, altri morti e tanti sospetti sul povero Benjamin, sempre presente sul luogo dell’esplosione o comunque coinvolto. A questo si aggiungono bambini scomparsi, cani epilettici, una bellissima giornalista-taccheggiatrice nient’affatto reticente ad entrare nel vivo delle cose (o nel letto del nostro protagonista) e l’amore di Benjamin per Gadda:
Eccolo, il signor Risson. Mi trova a occhi chiusi quello che gli chiedo: la riedizione tascabile del buon vecchio Gadda: QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA. Non osando sperare niente di più bello, mi tuffo nelle delizie della prima pagina. Che conosco a memoria. “Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi.”
Cos’altro serve? Se siete come me e Pennac ve lo eravate perso, ora potrete recuperare!