Il paradiso ritrovato, di Halldór Laxness
Halldòr Laxness, premio Nobel nel 1955 per “la sua opera epica che ha rinnovato l’arte e la letteratura islandese”, fu un testimone accanito dei miti e della tradizione islandese, ma anche un ponte che collegava le sponde dell’antico e dell’innovazione del suo popolo d’origine. Favorito dal lungo viaggiare che lo aveva portato a contatto con le principali correnti culturali del Novecento, si stabilì negli Stati Uniti per un certo numero di anni e senz’altro, in quel contesto, assorbì parte delle tradizioni di quella gente utilizzandone alcune nei suoi scritti. Inevitabile pensare che, dietro la rappresentazione della realtà dei mormoni d’America, ci sia un bel po’ di conoscenza personale.
Ne Il Paradiso ritrovato (Iperborea, traduzione di Alessandro Storti), Laxness narra la storia di un lavoratore delle campagne islandesi, certo Steinar, abile nel lavoro manuale quanto strenuo difensore degli antichi valori, un uomo che ripudia il denaro in quanto strumento di felicità che invece, secondo lui, dovrebbe essere sempre conseguenza del sudore della fronte.
Un esempio di tale riottosità è narrato nella vicenda del cavallo che non viene ceduto per denaro a Björn di Leirur bensì regalato al re di Danimarca con uno scrigno che custodisce un segreto.
In Danimarca, però, Steinar incontra la prima grande disillusione. I suoi regali non vengono valorizzati e considerati come meriterebbero, e questo lo porta a sentirsi più emarginato, così come la sua gente viene associata ad altri popoli (l’islandese ritenuto come un dialetto finnico o danese) anziché ottenere la giusta considerazione.
Decide allora, convinto da un predicatore mormone, di lasciare la propria terra e trasferirsi in Utah in una comunità di mormoni, abbracciando con difficoltà le tradizioni e gli usi del nuovo popolo. Incappa senz’altro nella poligamia. Lasciandosi alle spalle moglie e figli per seguire il proprio ideale, di fatto Steinar li condanna ai soprusi che subiranno, specie la figlia che si trova vittima inconsapevole di un concepimento non voluto in una ambigua vicenda che coinvolge il già nominato Björn di Leirur.
La condizione della donna, in questo libro in cui pure si alternano registri ironici e passaggi più marcati, quasi malinconici, nello stile di scrittura (almeno stando a quanto traspare dalla traduzione), è un tema spesso tirato in ballo, che si tratti della patria Islanda o anche nel lontano Utah, dove appunto le donne sono costrette a difendere diritti più o meno acquisiti in un periodo storico di passaggio tra l’età antica e le prime modernità.
Il destino di Steinar è però beffardo, lasciandogli esperienze che non lo accrescono quanto avrebbe voluto, ultima spiaggia prima di un ritorno a casa per scoprire con sorpresa che quel che era non è più, e che partire non è condizione necessaria e unica per la felicità.
Il paradiso ritrovato, in questo strano e affascinante romanzo, si materializza alla fine della lettura in quel ritrovare nella semplicità e nella familiarità delle cose quella grandezza, quel luogo ideale che si è cercato, inutilmente, altrove.