Il pozzo, di Regīna Ezera
Ci sono storie che dopo averle lette ti lasciano un sapore piacevole, quel retrogusto anche un po’ amaro, ma che alla fine ti fa dire: “Ne vorrei ancora”.
Il pozzo di Regīna Ezera (Iperborea, trad. di Margherita Carbonaro) secondo me è una di queste. Una storia vivida di quotidianità, dove anche il dettaglio resta a servizio di un cosmo ben più ampio, inafferrabile, ma non per questo meno tangibile.
Rūdolf, un medico di Riga, è in vacanza solitaria presso un lago della campagna baltica e chiede in prestito una barca alla gente che vive in un antico casale. Laura, una donna esile e vestita alla buona ma dotata di un fascino impenetrabile, riesce a suscitare l’interesse di Rūdolf proprio a causa del suo fare schivo, di sguardi assenti e dei silenzi che riflettono una grande inquietudine interiore. Laura vive in quel casale insieme ai due figli Māris e Zaiga, alla suocera Alvīne e alla cognata Vija. La sua è una vita fatta di duro lavoro, trascorsa giorno dopo giorno a contemplare la figura assente del marito Ričs (in carcere per un omicidio accidentale in una giornata di caccia), figlio ribelle e inquieto di Alvīne ed erede di un destino familiare poco felice. Laura apprezza, poco alla volta, la presenza di Rūdolf, la piacevole accoglienza che gli viene riservata dai suoi due figli, e scopre dentro quella voglia di rivalsa, quel desiderio di cambiare perché finalmente si rende conto di non amare Ričs.
Il pozzo è una storia fatta di una moltitudine di elementi minimi, di frammenti di vita di tutti i giorni, di uno scandire le ore, perché è il tempo il vero protagonista di questo romanzo.
È il tempo trascorso da Rūdolf in quei luoghi, il suo rendersi conto di essere un solitario da troppo tempo e di avere una vita che, forse, potrebbe ricostruire in meglio.
È il tempo – anche – di Māris e Zaiga, i due simpatici bambini che bisticciano a causa della loro indole contrapposta: irrequieto e curioso Māris, graziosa e dolce Zaiga, protagonisti di irresistibili dialoghi:
…«…cinquantasei», annunciò Zaiga. «C’erano cinquantasei vagoni!»
«Cinquanta…sette!» obiettò Māris solo per stuzzicare la sorella. Non li aveva affatto contati.
«Cin-quan-ta-sei!» ripeté Zaiga scandendo le sillabe…”
È il tempo di Alvīne, che resta in attesa che il figlio ritorni, e intanto si chiede se è davvero stata una buona madre, se non ha sbagliato a dedicare sé stessa soprattutto a quel figlio maschio che però aveva dimostrato quanto fosse mal riposta la fiducia della genitrice.
… L’orologio batté dodici volte, grave e lento, come deplorando che il tempo scorresse inesorabile e non fosse possibile trattenerlo, ma solo scandirlo, scandirlo…
Ed è soprattutto il tempo di Laura, del desiderio di evadere dal recinto in cui è rinchiusa suo malgrado:
… La luce alla sua finestra era quieta e impassibile, non le importava di sapere se qualcuno, e chi, stesse girando là nel lago, lei aveva la sua felicità e la sua infelicità, la sua vita, e non vi lasciava entrare nessuno…
Laura scopre che vorrebbe ma non può perché prigioniera del proprio ruolo di moglie devota, ed è costretta a lasciar cadere il lento avvicinamento – fatto di silenzi, mani che si sfiorano – con quel fascinoso medico, quell’uomo che potrebbe farle vivere un’esistenza diversa.
Regīna Ezera, definita la grande dame della prosa lettone, raggiunse la consacrazione in patria grazie a questo romanzo del 1972, un’opera di difficile collocazione in un’epoca dominata ancora dai rigidi dettami dell’ex Unione Sovietica.
Per me, una piacevole scoperta, dai ritmi a volte lenti, ma in genere fluida ed efficace, ricamata ad arte coi piccoli dettagli che rendono imprevedibile la vita reale.