Il richiamo della foresta, di Jack London
Quest’anno ho girovagato per il Salone internazionale del Libro di Torino con la chiara intenzione di non effettuare alcun tipo di acquisto. In un posto così pieno di testi è bene adottare la politica del non lasciarsi andare a favoritismi ed evitare di ritrovarsi con un libro appena comprato tra le mani per poi rimpiangerne l’acquisto allo stand successivo, quando si rimane ammaliati dal titolo, dall’autore o dalla successiva copertina che ci si ritrova a sbirciare. Stoicamente ho girato per cinque giorni mantenendo fede a questo diktat autoimposto, ascoltando scrittori, stringendo mani ad editori e sfogliando pagine senza troppa foga per evitare di cadere in tentazione. Tutto è filato per il verso giusto fino all’ultima giornata, fino alla sera in cui avrei salutato il Salone del Libro: erano le 20:30 di domenica 19 maggio e mi apprestavo ad affrontare l’ultimo degli incontri che avrei seguito presso la Sala Azzurra, dove Marco Baliani avrebbe letto “Il richiamo della foresta”, il libro cult di Jack London uscito nella traduzione di Gianni Celati (e in versione audiolibro per Emons con regia di Flavia Gentili).
Nonostante la stanchezza mi sono ritrovato catapultato al freddo, tra i ghiacci, in questa storia incredibile. La voce di Baliani, che ha letto alcuni dei passi del libro, è stata in grado di coinvolgermi a tal punto che ho quasi imprecato per non aver affrontato questa lettura a tempo debito, ovvero da adolescente.
All’uscita dalla Sala Azzurra, chi ha seguito con me la lettura ha pensato bene di colmare queste mie lacune giovanili regalandomi il volume. Nei giorni successivi ho iniziato a leggere quelle 132 pagine con la lentezza di un bradipo. Questo perché la bellezza della scrittura di Jack London, riportata magicamente dalla voce di Celati, non lascia proprio scampo: ti porta a centellinare pagine e parole per la paura che tutto finisca troppo presto, in un lampo. La mente dello scrittore, nato nell’Ottocento, figlio illegittimo di un astrologo ambulante e uomo dai mille mestieri (strillone di giornali, pescatore clandestino di ostriche, lavandaio, cacciatore di foche, corrispondente di guerra, agente di assicurazioni, pugile, coltivatore e cercatore d’oro e chissà cos’altro ancora) ci ha regalato una storia di quelle che resistono al tempo. Il richiamo della foresta è ormai un libro centenario che rappresenta una pietra miliare della letteratura per ragazzi, eppure io l’ho letto alla veneranda età di 31 anni. E sarà che i tempi si sono dilatati, sarà che ancora mi sento e mi fanno sentire un ragazzotto, ma io l’ho trovato formativo anche per me.
La trama del libro ruota intorno alle vicissitudini di un cagnolone di nome Buck, incrocio tra un San Bernardo e un pastore scozzese, che vive una normalissima quotidianità di agi insieme al proprio padrone, il giudice Miller. Presto però l’equilibrio viene spezzato dall’entrata in scena di Manuel, giardiniere del giudice e personaggio ambiguo col vizietto del gioco che, per pagare i propri debiti, decide di vendere Buck.
Siamo nel periodo della corsa all’oro e le dimensioni fisiche del cane si adattano particolarmente bene al lavoro di traino delle slitte. È così che Buck si ritrova a passare dal clima caldo della California a quello freddo e pungente dell’Alaska e, una volta addestrato come cane da slitta, inizierà ben presto ad affrontare uno stile di vita molto duro e aspro, completamente diverso da quello a cui era abituato, tra le bastonate infertegli dagli uomini che vorranno metterlo in riga e le lotte di gerarchia all’interno del branco. Ma Buck è un cane forte e fiero: non si lascerà abbattere e apprenderà ben presto i meccanismi della legge del più forte, l’unica che è bene seguire per sopravvivere a freddo, fame e solitudine.
Le similitudini con la durezza della vita per un giovane prossimo ad affrontare il mondo, uscito dalla propria famiglia e pronto ad andare verso il suo futuro sono notevoli. Ed è forse per questo che il libro si presta così bene ad essere considerato di “formazione”. La bellezza che lasciano trapelare le descrizioni, il senso di rivincita che si prova nel leggere di Buck che a fatica, ma meritatamente, si fa strada nel mondo, lasciano un piacevole senso di soddisfazione, quasi fossimo noi stessi ad aver preso parte alla vicenda, ad averla vissuta e superata insieme al protagonista. L’inarrestabile ascesa di Buck, che sente riaffiorare in sé tutti gli istinti ancestrali del proprio essere animale, arriverà fino al vero e proprio richiamo della foresta, in un finale che lo renderà quasi leggenda. Chissà che Jack London non abbia tramutato la propria storia alla ricerca dell’oro, reale e probabilmente faticosa e dolorosa, in quella del suo personaggio così riuscito che ha descritto in queste pagine. Lui stesso aveva quasi trent’anni quando ha scritto il romanzo, tanti quanti ne ho io, che ho rivissuto questa storia a distanza di cento anni. E se l’anno prossimo tornerò al Salone del Libro, forse ancora al fianco di chi mi ha fatto questo splendido regalo, chissà che io non torni di nuovo a casa con un altro grande classico altrettanto attuale, ottimo per la mia formazione di adolescente in erba. O che non ritrovi tra la mole infinita di pagine che popolano gli stand, in un angolo, questo stesso piccolo grande capolavoro, e che non mi metta a leggerne qualche pagina, facendo finta di non averlo mai conosciuto, solo per il gusto di lasciarmi sorprendere ancora una volta.