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In libreria: Rivivere, di Olivia Agostini

Rivivere
Rivivere

Un romanzo familiare, delicato e struggente, dove la fatica di crescere si coniuga all’autenticità dei sentimenti più veri. Uno scrittore in odore di Nobel, padre di quattro fi gli, innamorato di una moglie da cui si è separato da molti anni, decide di scrivere la storia della sua vita per riviverla come avrebbe voluto, spianando gli incroci dove la strada si è spezzata, aggiustando le fratture, arrivando puntuale agli appuntamenti importanti.

Così, nei suoi ricordi la memoria si intreccia al desiderio e alla nostalgia, mentre il volto di Marcella e dei ragazzi prende forma, attraverso le sue parole, in un tempo e in uno spazio mutevoli e sempre carichi di affetto. Se Marco, il primogenito, è nato sotto il segno dei Pesci e fa dell’inquietudine la sua cifra, Veronica si difende dalla morte rifi utandosi di scegliere. Lilo invece, sorridente e lieve, alla morte si avvicina con inesorabile precisione, lasciando nei cuori di tutti un vuoto pieno di suoni. Per ultimo Rai, eterno ragazzo, destinato a rimpiangere un’età dell’oro familiare che non ha mai vissuto.

Tra Milano e Roma, Berlino e Vienna, Londra e New York, questi sei personaggi in cerca di se stessi si inseguono e si amano, si mancano e si trovano, guidati dalla voce narrante del padre. E con il padre viaggiano, tornando quando possono a casa, al ricordo di quel casale nella campagna veneta che li ha visti per un momento felici.

Un romanzo sulla paternità, interpretata da una giovane scrittrice con straordinaria freschezza.

Rivivere comincia così:

Ritornai all’auto con passo trascinato, aprii la portiera e la richiusi, sistemandomi dietro al volante. Nell’abitacolo c’era silenzio, lo sentii fisicamente addosso come uno strato di polvere. Guardai nello specchietto ritrovandomi fissato da Veronica e Lilo: avevano le sopracciglia alzate e un’espressione strana, quasi fossi stato via un secolo e fossi riapparso con il volto sfigurato dalla guerra.

“Che c’è?” chiesi. Poi mi accorsi del vuoto accanto. Le interrogai con un’occhiata. “Dov’è Marco?”

“È sceso.” disse Veronica.

(…)

Mi toccò riaprire la portiera e ridiscendere. Mi sentii un robot, con i meccanismi arrugginiti dall’usura, mentre spingevo il cancello di casa e riattraversavo il vialetto. Incrociai Marcella davanti al portico. Anche lei mi guardò come se fossi diventato un’altra persona nel frattempo, con lo sguardo di un cerbiatto sorpreso in mezzo al bosco dal cacciatore armato: pieno di paura e curiosità. Ma soprattutto incomprensione. Provai il desiderio di allungare le braccia e attirarla a me, stringerla, stringerla forte, e in tal modo cancellare il futuro che avevamo scelto di sperimentare. Avrei voluto dirle che stavamo commettendo un errore, non era così che doveva andare, ma invece abbozzai un sorriso e le spiegai che Marco si era rifugiato nella casa sull’albero, stavo andando a provare a farlo scendere. Gesticolai più del dovuto, come nei momenti in cui cerchi di coprire i tuoi reali pensieri con le mani. Lei si limitò a chinare il capo, rimise le chiavi di casa in tasca e mi seguì sotto la grande quercia, restando un po’ indietro, facendomi solo da spalla.

Marco aveva ritirato la scala e ci osservava dall’alto, ispezionando il campo di battaglia in silenzio, consapevole di essere in vantaggio. Ricordo il suo volto in controluce, torvo, con gli occhi chiari che sembravano due finestre di cielo, sulla facciata annerita dalla fuliggine di un edificio della Londra dell’Ottocento. Non sembrava aperto alle trattative. Mi fece parlare per un po’, spingendomi a ripetere la stessa implorazione – “scendi, per favore?” – come un disco rotto. Finché non mi venni a noia da solo e mi zittii, per riprendere fiato.

Fu allora che ci rovesciò addosso la verità, come una granata che scavò una fossa tutt’intorno, facendoci sentire minuscoli. E meschini. Le parole diventarono schegge conficcate nella mia coscienza.

“Avete deciso tutto voi. Non ci avete nemmeno chiesto cosa volessimo, noi. Io non ci vengo, a Roma. Non mi piace. Io non voglio vivere in città. Non è giusto. Se non v’importava niente dei vostri figli, potevate anche non metterci al mondo. Non ve lo abbiamo chiesto noi di venire al mondo.”

Mi girai per specchiare ogni dubbio nello sguardo di Marcella, ma i suoi occhi schivarono i miei per alzarsi verso le fronde. Avanzò fin sotto al tronco, con le braccia conserte. E in quel momento capii che avevo sbagliato approccio con Marco, e l’avrei sempre sbagliato, probabilmente, perché l’errore si era codificato nel mio comportamento così a fondo che pretendeva di essere compiuto ogni volta, prima della rettificazione: non avrei dovuto aspettare che venisse da me, sarei dovuto andare da lui, come un ambasciatore.

“Mi fai salire?” chiese Marcella.

E la scala fu calata lentamente, in risposta, un attimo dopo.

Olivia Agostini è nata a Milano nel 1983. Musicista indipendente e scrittrice, ha pubblicato La ruggine nel sangue (Piemme 2010) e l’ebook Gli amanti di pietra (Emma books 2012). Ha girato un cortometraggio sperimentale intitolato La Chanson de la Paix, che ha ricevuto una menzione speciale al Festival de Cine Internacional de Barcelona (2006). Con la poesia Seduta di Pace è stata fra i sette vincitori della prima edizione dell’International Peace Poetry Festival a cura della poetessa Rira Abbasi, tenutosi a Teheran nel maggio 2007.

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