Intervista a Paolo Zardi riguardo L’ultimo raccolto
L’ultimo raccolto è un racconto lungo dello scrittore padovano Paolo Zardi, uscito di recente con Tetra, neonata casa editrice che si propone di pubblicare solo racconti. Singoli racconti, badate bene, non raccolte, racconti in un formato quadrato tascabile al prezzo di 4 euro a libro. Una scommessa editoriale molto interessante, apprezzabile proprio perché rilancia qualcosa da sempre poco considerato in Italia, ovvero la forma racconto.
Il libro di Paolo Zardi è il secondo di questa collana a uscire, ed è l’ennesima variazione sul tema delle vite borghesi e delle loro deviazioni, sulle quali lo scrittore padovano è da sempre maestro, sia nella veste di autore di romanzi, sia in quella di scrittore di racconti. Qui il protagonista è un ricercatore universitario, con un passato di giovane promettente fisico, adagiatosi nel corso della vita a una mediocre carriera. Arrivato alla fatidica età dei cinquanta anni, viene lasciato dalla moglie, stufa di una vita di coppia convenzionale. Lo rimprovera di avere fatto una cosa orribile, ma non dice quale. Lui ne risente tantissimo, entra in una crisi irreversibile, dalla quale esce solamente accettando un incarico a Copenaghen. Troverà nuove ragioni di vita, anche grazie all’incontro sessuale con due donne disinibite (madre e figlia), ma poi dovrà ritornare in Italia per …
Non svelo il finale, essendo qualcosa di importante, soprattutto nella forma racconto. Dico solo di avere apprezzato tantissimo la prima parte, dedicata alla vita borghese, con i suoi riti, miti, scampagnate con gli amici, figli, una vita borghese interrotta da questa separazione. Da qui la crisi di coppia, molto tragica e a tratti surreale. Bello anche l’idillio danese, anche se in parte viziato dai soliti luoghi comuni sulle bellezze femminili nordiche, progredite sessualmente, dalle quali il racconto si salva innestando questa curiosa concorrenza madre/figlia, con poi l’arrivo di un marito/padre geloso che non ti aspetteresti. Belle le riflessioni di Zardi sullo scorrere della vita, sul cogliere l’ultimo raccolto da parte di un uomo di mezza età.
Di questo e altro ne ho parlato con l’autore in questa lunga intervista.
Come è nato L’ultimo raccolto?
Ogni persona che scrive con una certa continuità prima o poi finisce per prendere atto che esistono, nella propria produzione, alcuni “temi dominanti” attorno ai quali ruota la maggior parte delle storie. Nel mio caso, mi è ormai chiaro che spesso, al centro dei miei romanzi e delle mie storie, c’è una mancanza di informazioni che rende asimmetrico il rapporto tra due persone – così, ad esempio, in XXI secolo e, forse ancora di più, in Tutto male finché dura. Ognuno è in grado conoscere solo una parte della vita delle persone che lo circondano – e il motivo non è necessariamente legato alla presenza di un segreto: esistono errori di trascrizione, di traduzione, di comprensione, di trasmissione, ed esiste soprattutto la ferma volontà di ciascuno di ricondurre le esistenze altrui a una qualche struttura che sia governabile, gestibile, dal punto di vista pratico e da quello sentimentale. Senza voler complicare troppo questa idea, direi che la mente dell’uomo tende a stereotipare ogni cosa – è l’inclinazione che sta alla base del linguaggio e del ragionamento astratto; applicata alle relazioni, però, questa tendenza introduce semplificazioni piuttosto grossolane.
Nel caso di questa storia, il punto di partenza è la scoperta di un segreto che neppure la voce narrante conosce. Attorno a questo mistero ruotano le vite dei personaggi, e in particolare quella del protagonista che cerca una via d’uscita alla situazione nella quale si è improvvisamente trovato.
Perché questo titolo? … non si parla di agricoltura.
Durante la pandemia (un’era fa, mi verrebbe da dire), mentre eravamo in lockdown, avevo trovato un articolo in una rivista americana di qualche prestigiosa università in cui veniva introdotto il concetto di The Last Harvest, cioè l’ultimo raccolto. Questo termine veniva riferito, ad esempio, all’epidemia di spagnola, che aveva mietuto le sue vittime dopo che la guerra aveva messo in ginocchio l’Europa: è il fenomeno per il quale un certo evento, arrivando dopo una serie di catastrofi precedenti, produce un effetto tremendo e ampiamente superiore alla sua reale pericolosità.
Avevo riportato i principi di questa idea nel campo sentimentale, immaginando la storia di un uomo che, dopo aver superato una serie di drammi personali, legati quasi tutti all’amore – di cos’altro si dovrebbe parlare? –, si trovava a dover gestire la fine di una relazione, che lo coglieva ormai sessantenne, stanco, provato, incapace di opporre resistenza. Quel dolore sarebbe stato l’ultimo raccolto che l’amore faceva sul suo corpo, il colpo del KO che arriva alla fine di uno sfiancante lavorio ai fianchi. Ne sarebbe uscito sicuramente il mio libro più triste e disincantato; ma, come si diceva una volta, il pessimismo teniamolo per tempi migliori. Ho quindi rovesciato la metafora: in questo libro, l’amore riesce ancora a creare, per l’ultima volta, quella magia che inseguiamo per tutta la vita.
Una crisi di coppia e la rinascita (ripartenza) di un cinquantenne oggi. È un caso che esca oggi, nella Covid-era?
Sto ancora riflettendo sul reale impatto del Covid nella letteratura, e in particolare su quella che produco io. Attorno ad aprile del 2020 mi ero confrontato con altri autori proprio su questo tema ed era emersa una forma di sostanziale paralisi: nessuno sapeva se sarebbe stato ancora possibile immaginare una storia senza tenere conto di quanto stava succedendo. Il timore era che quel tipo di vita – lockdown duro, città disabitate, spostamenti vietati – potesse diventare la norma; se così fosse stato, i romanzi che stavamo scrivendo, o che avremmo voluto iniziare a scrivere, sarebbero sembrati del tutto inverosimili, come se fossero ambientati in un mondo parallelo che non esisteva più.
Nel giro di pochi mesi, però, questo timore è svanito. Il mondo è rimasto uguale a prima, se si eccettua il numero di riunioni che una porzione non irrilevante di lavoratori è costretta a fare su Zoom o su Teams. Ci sono sicuramente delle cicatrici, ma come succede sempre dopo queste catastrofi, più o meno grandi, i morti non hanno più voce in capitolo e possiamo quindi dire che, tutto sommato, ci è andata anche bene.
Quanto c’è di autobiografico in questa storia?
Scrivere è prendere un quarto di bue e tirarne fuori un piattino gourmet. Ecco, quel quarto di bue è la mia vita, il piattino gourmet questo racconto lungo. Sono stato a Copenaghen per due splendide estati perché mio padre lavorava all’istituto di fisica Niels Bohr e avevamo quindi preso una casa nel quartiere residenziale di Hellerup, un appartamento che la famiglia Gottlieb – lui dentista, lei professoressa di lettere antiche all’Università –, affittava in luglio, quando partiva per le vacanze; in un cassetto, avevo trovato una mandibola umana e devo dire che per il tredicenne di allora la scoperta aveva sortito un certo effetto. Cos’altro? Nel 2019 ho scritto un reportage da una sala operatoria, dove ho assistito alla donazione di un rene tra viventi. E poi ci sono i libri. Anni fa ho letto un bel romanzo, Nuova grammatica finlandese di Diego Marani, in cui a un uomo senza memoria viene fatto credere di essere finlandese, fino a trasformarlo in un patriota; ho amato L’anno del pensiero magico e forse ancora di più Blue Nights, entrambi di Joan Didion, dove racconta, tra le altre cose, il dramma della sua figlia adottiva Quintana. La casa in cui vive il protagonista con la sua famiglia assomiglia a quella dei miei zii di Mogliano Veneto. Il tedesco che mangia in mensa è forse nato da un episodio che mio padre ci aveva raccontato negli anni Settanta, quando d’estate rimaneva a Padova a lavorare e trovava, in giro, persone sole che chiedevano solo di poter parlare con qualcuno… Alla tua domanda, quindi, risponderei con un “tutto e nulla, in egual misura”.
Spesso mi diverto a immaginare chi potrebbe interpretare in un film i protagonisti di quello che leggo. Tu chi vedresti nei ruoli principali e chi vedresti bene come regista?
Se potessi scegliere, sempre e solo Ugo Tognazzi; dovendo scegliere tra i viventi, e senza pormi alcun limite di budget, Andrea Mastrandrea per il protagonista, al quale però imporrei una recitazione sobria e misurata. Per Rachele, una giovane Milena Vukotic; per Quintana, Gabourey Sibide; per il direttore del dipartimento di fisica, Christoph Waltz, Sidse Babett Knudsen per Ulla, Audrey Tautou per Maja e infine Willem Dafoe per Magnus, l’inquietante marito danese. Per il regista, punterei a una giovane italiana.
In Italia non si pubblicano libri di racconti, o almeno a fatica (tu ne hai fatti diversi). Ora una casa editrice con una collana di soli racconti. Come mai?
Sono certo di non essere l’unico a credere che il racconto rappresenti un genere con enormi potenzialità – espressive, artistiche, e anche commerciali, in un periodo in cui la fruizione di contenuti è diventata sempre più facile. Per un certo periodo si è stati convinti che il romanzo non avesse mercato; ora, per fortuna, non è più così. Esiste una casa editrici, Racconti edizioni, che pubblica solo racconti; Edizioni Industria e Letteratura ha affidato a Martino Baldi la cura della collana L’invisibile, che pubblica racconti lunghi; la piccola Tic di Emanuel Kraushaar ha appena varato la collana Amuleto dove da poco è uscito un bel libro di Graziano Graziani; la Neo. insiste nel percorso iniziato proprio al suo esordio, con l’antologia E morirono felici e contenti e la raccolta di racconti di Gianni Tetti, con la pubblicazione di Acari di Giampaolo Rugo, da molti ritenuto giustamente uno dei migliori libri degli ultimi due anni. E ora arriva Tetra, fondata da Danilo Bultrini e Luca Verduchi, che punta tutto sul racconto lungo – per intenderci, quello tra le sessanta e le ottantamila battute. La formula è accattivante: quattro libri che escono in contemporanea quattro volte all’anno, un formato quadrato, un prezzo (quattro euro) quasi provocatorio e una cura attentissima all’edizione, che è quasi sontuosa. È una scommessa ma non un salto nel buio. I primi riscontri stanno dando ragione agli editori. Secondo me il vento sta cambiando.
Sono previste presentazioni di L’ultimo raccolto? Ne hai fatte? Se sì, come sono state?
Ho presentato il libro in tre occasioni – al Salone del Libro di Torino, e a Roma, una volta nella libreria Ubik di Trastevere, un’altra al Pasto Nudo, il festival curato da Nuova Verde. Con me c’era sempre Roberto Venturini, che è il brillante curatore della collana. Abbiamo parlato dei racconti in generale e di questo in particolare. La principale difficoltà che si incontra durante una presentazione di un racconto lungo è che non è possibile addentrarsi troppo nella trama senza rischiare di rivelare un po’ troppo. Ma credo che si siano affrontati discorsi interessanti.
Progetti futuri?
Sto lavorando, ormai da troppo tempo, a un giallo ambientato tra il 1939 e il 1943. È una sfida impegnativa e sotto certi aspetti logorante: volendo uscire dalla mia zona di confort, mi sono spinto un po’ troppo in là e questo comporta una grossa fatica e una certa dose di frustrazione. Ho però iniziato a scrivere altri due racconti lunghi, e da poco ho ripreso a leggere con un certo impegno, con la serietà e la concentrazione che avevo qualche anno fa. Vorrei diventare un pochino più ambizioso, anche se il tempo per dare seguito ai miei progetti è davvero poco. Non mollo, comunque. Scrivere è ciò che mi definisce come essere umano.
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