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Jungle Rudy, di Jan Brokken

Jungle Rudy
Jungle Rudy

Sono cresciuto a pane e libri, a pane e fumetti, a pane e sogni d’avventura. Mi ricordo il Sudamerica di Mister No, quei paesi sconfinati che sorvolava con il suo scassatissimo piper che per avviarlo ci voleva il calcione giusto nel punto esatto. Il Sudamerica dei misteri, della malavita, degli indios e degli avventurieri ma anche quello della vita dura nella giungla, nella savana. A quei tempi, erano in molti a lasciare il proprio paese – e i motivi potevano essere infiniti – per rifugiarsi in un angolo sperduto del mondo, lontano dalla calca e dalla massa, per costruirsi lì la propria personalissima esistenza.

Jungle Rudy (Iperborea, con traduzione di Claudia Cozzi), in buona parte, è proprio questo. È un libro che porta alla memoria di tanti la figura di un uomo d’avventura, uno che dopo aver vissuto l’infanzia tra gli agi – prima – ed essere sopravvissuto per caso a un bombardamento anch’esso non meno casuale, anche in tempo di guerra – poi – apre il proprio orizzonte e fugge in Sudamerica, tra gli indios del Venezuela. Disse a un fratello, a quei tempi, di voler andare a vivere nella giungla, “…il più lontano possibile dalla massa.”

Rudolf Truffino era il suo nome per esteso; olandese di origine italiana, visse i primi anni nella libertà sconfinata, in un contesto che avrebbe fatto fuggire molti a gambe levate. Visse mangiando formiche e vermi, barattando i vestiti per un arco, anche se avrebbe dovuto attendere anni per riuscire a catturare un pesce con quello strumento di caccia.

Magro, allampanato, ma carico di uno sguardo magnetico e di quelle pose di chi potrebbe parlare per ore ma tace perché spesso lo reputa inutile. Si fece catturare da un luogo affascinante, i tepui dello Scudo della Guyana, la più antica formazione d’arenaria al mondo, residuo dei tempi in cui Africa e Sudamerica erano ancora abbracciate.

In quei luoghi, nella Gran Sabana, Truffino scoprì un territorio pressoché ignoto. Erano gli anni Cinquanta, e vivendo tra lembi rocciosi isolati che sfioravano a volte i duemila metri, apprese che vi crescevano numerose piante che non si trovavano in nessuna altra parte del mondo e animali e insetti che, a seguito della deriva dei continenti, altrove si erano estinti o evoluti in maniera completamente diversa. A quei tempi la Gran Sabana era, dal punto vista scientifico, inesplorata quanto la Luna.

In quei posti, però, si sentì prendere il cuore da un richiamo irresistibile, e decise di costruirci un campo, in mezzo agli indios pemòn, vicino a una cascata ricca d’acqua anche nel periodo secco. Ucaima: un posto da favola, ma anche duro e selvaggio, che avrebbe adorato fino alla morte.

Nei pressi, l’ipnotica vista dell’Auyan Tepui, dove c’erano le cascate del Salto Angel, meta di visite che guidava personalmente, e che avrebbe fatto anche in presenza di troupe cinematografiche, come quella che girò Verdi Dimore, con Audrey Hepburn e Anthony Perkins, nel quale tra l’altro ebbe una piccola parte come comparsa.

Il libro ripercorre la vita sudamericana di Jungle Rudy, ma non solo. In parte, si tratta di una testimonianza presa dal diario della moglie Gerty, la donna che gli diede le tre figlie Lily, Gaby e Sabine. Il suo rapporto con la famiglia, però, divenne difficile nel tempo. Prima le incomprensioni con sua moglie, tedesca di patria e di affetti, fredda e sostanzialmente diversa. Poi, dopo la morte della donna a causa di un brutto male – quando già i due non erano più legati da niente – anche le figlie presero strade per niente condivise dal padre. E dire che, nel crescerle, se l’era posto spesso il problema di educare delle bambine nella giungla, abituandole a cavarsela da sole tra ragni e serpenti. Aveva sempre temuto che, all’occasione, non avrebbero saputo gestire i propri sentimenti – quel poco che sarebbero riuscite a sviluppare – in maniera corretta. Alla fine della sua vita, comunque, non avrebbe avuto un grande supporto da loro.

Visse per anni facendo la guida, il suo nome divenne leggendario tanto che a usufruire della sua esperienza furono personaggi famosi come il regista Herzog, il primo ministro canadese e Carlo, principe ereditario d’Inghilterra.

La figura di Rudy, in parte, incarna quella dell’eterno viaggiatore.

Jan Brokken, nel raccontarlo, resta colpito dalla forza con cui Truffino aveva tagliato i ponti col passato. Cita un proverbio cinese, che dice “… il buon viaggiatore sa dove sta andando, il viaggiatore perfetto dimentica da dov’è venuto…”, e confessa d’esser stato subito affascinato dal fatto che Truffino, per sopravvivere nella giungla, non rinunciò mai ad ascoltare regolarmente il Don Giovanni e tanta altra musica classica, oppure vecchissime registrazioni di Ella Fitzgerald, oppure ancora le note di un trombettista jazz. Inoltre, in quel luogo selvaggio, non si fece mai mancare i libri. Ne possedeva a migliaia, e li regalava pure, se gli erano piaciuti  e quando era convinto di fare del bene. In questo scarso attaccamento alla proprietà, dimostrava di aver appreso alla perfezione la mentalità dei pemón.

Brokken, quando nel 1995 decise di partire per conoscere quell’uomo pieno di fascino selvaggio, scoprì che nel frattempo Jungle Rudy era spirato, attanagliato da mali incurabili, solo e dimenticato da tutti, ma non dai suoi amici pemón, che gli portano rispetto come a una figura monumentale.

A un certo punto balzò a destra, verso una radura nel bosco. Una pietra orizzontale, sopra una croce. Non poteva che essere una tomba. Mi avvicinai e lessi: Rudolf J.M. Truffino van der Lugt (Jungle Rudy), 7-12-1928 11-1-1994. L’uomo che volevo incontrare era morto da più di un anno

El Señor Rudy, almeno a loro, ha lasciato qualcosa.

Il viaggio di Brokken, quindi, si svolge tra la gente, calcando la terra che ospitò per anni Truffino, alla scoperta di una natura ancora selvaggia, nella quale è difficile sopravvivere. Partito per conoscere il mito, è riuscito a costruirsene un altro.

Che non è più persona, non ha più un solo nome, ma è un fantastico coacervo in cui confluiscono storia, usi, bellezza, amore per gli spazi aperti, per la vita libera.

Un libro che consiglio, perciò. Una lettura per scoprire, che a me ha fatto enorme piacere. Chissà che non vi succeda lo stesso.

Enzo D'Andrea

Enzo D’Andrea è un geologo che interpone alle attività lavorative la grande passione per la scrittura. Come tale, definendosi senza falsa modestia “Il più grande scrittore al di qua del pianerottolo di casa”, ha scritto molti racconti e due romanzi: “Le Formiche di Piombo” e "L'uomo che vendeva palloncini", di recente pubblicazione. Non ha un genere e uno stile fisso e definito, perché ama svisceratamente molti generi letterari e allo stesso tempo cerca di carpire i segreti dei più grandi scrittori. Oltre che su MeLoLeggo, scrive di letteratura sul blog @atmosphere.a.warm.place, e si permette anche il lusso di leggere e leggere. Di tutto: dai fumetti (che possiede a migliaia) ai libri (che possiede quasi a migliaia). Difficile trovare qualcosa che non l’abbia colpito nelle cose che legge, così è piacevole discuterne con lui, perché sarà sempre in grado di fornire una sua opinione e, se sarete fortunati, potrebbe anche essere d’accordo con voi. Ama tanto la musica, essendo stato chitarrista e cantante in gruppi rock e attualmente ripiegato in prevalenza sull’ascolto (dei tanti cd che possiede, manco a dirlo, a migliaia). Cosa fa su MeLoLeggo? cerca di fornire qualcosa di differente dalle recensioni classiche, preferendo scrivere in modo da colpire il lettore, per pubblicizzare ad arte ciò che merita di essere diffuso in un Paese in cui troppo spesso si trascura una bellissima possibilità: quella di viaggiare con la mente e tornare ragazzi con un bel libro da sfogliare.

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