La memoria e il tempo prigioniero: Nel folto dei sentieri, di Piersanti
Quella di Umberto Piersanti è un figura di spicco nel panorama letterario nazionale; la sua poetica svaria ma resta fondamentalmente ancorata all’esistenzialismo novecentesco, filtrato da una particolare sensibilità emotiva, una luce che si illumina di paesaggi che poi passano diretti e pulsanti attraverso la sua penna, in versi che hanno la fluidità dell’acqua di fonte, il candore della neve sui monti, ma anche e soprattutto l’ardore del sentimento genuino.
Poche ma significative sono le domande che si pone Piersanti. Domande che riportano alla mente il passato, ponendolo in un continuo confronto con la realtà circostante. Tali domande sono il motivo ricorrente delle liriche raccolte nel Folto dei sentieri (ed. Marcos y Marcos).
È il tempo la miglior risposta. Il tempo che sfoca i ricordi e cambia volti suoni e colori, lasciando nomi e immagini libere di essere modellate a piacimento. Il tempo avvicina tutti alla fine, all’ultimo istante che vorremmo mai arrivasse, o almeno vorremmo arrivasse quando avremo ancora il capo alto e l’orgoglio fiero e non il corpo chino di chi è stato vinto, piegato.
“…forse c’è un luogo dove il vento le posa/ dove rimane incisa ogni figura/ dove non c’è gesto e respiro che si perda/ un luogo che sia sbarrato al tempo per l’eterno…“
La poesia di Piersanti è un sentiero che si srotola tra campi e valli, fiumi e cielo, campagna e città. In questo svolgersi l’occhio resta rapito da immagini che, vivide e sanguigne come in un fresco dipinto, acquisiscono spessore come per un tocco magico. Perdervisi è un attimo e il tempo si ferma
“…e lì s’arresta il tempo come nel quadro?/ e cessa lo sgomento per le ore che tregua non concedono al tuo giorno?…“
ed è sovente la figura del figlio Jacopo a emergere, insieme alle domande perenni del genitore che vede trascorrere l’esistenza e con gli anni emergere interrogativi, timori, affanni.
Versi semplici, che sanno di vissuto, di odorose verità.
Versi vaganti, complici di una memoria che non cede. Come sempre, anzi, essa vaga nel tempo che fu, alla ricerca di istanti, immagini, sensazioni felici. Questo vagare muta e assorbe le parole del poeta, i suoi versi diventano un personale diario di bordo, quello del capitano che naviga su acque scure e limacciose con la forza di una viola d’inverno che squarcia le nebbie portando in salvo il ricordo con gran nitidezza.
In questo alternarsi di quadri e paesaggi, la malinconia fa capolino, ogni tanto:
“…oggi/ in questi prati passo con una donna e un figlio/ un figlio che non guarda e non t’ascolta/ a queste luci e rami indifferente/ abita una contrada senza erbe e fiori/ e non c’è nessun altro nella sua strada/ ma lui avverte gli evi i più lontani/ il tempo che precede alberi e pietre…“
È un amore dichiarato, quello per il figlio, ma anche quello per la natura, i paesaggi e le nevi, il cielo e i fiori e gli animali che incontrava lungo la strada.
“…Sempre ho scelto la terra e non il cielo/ ma quel giorno la terra era in cielo…“
“…Sempre m’è stata cara la stagione dei ghiacci e delle viole/ dentro i giorni sospesi ci sono nato…“
I versi di Aspettando l’inverno (su per la gola del Furlo) sono un mondo ancestrale che si risveglia nel tempo odierno. Suoni e figure, sentieri e luoghi che spuntano dietro l’ultima foglia di un albero centenario oppure lungo la scura linea dell’orizzonte dei monti impervi e solitari. Quei versi sono magia, credenza popolare, sogno e pensieri, bellezza e voci surreali. L’umida nebbia cela i contorni, lasciando trasparire solo l’odore gravido della terra bagnata. Gli umori, le palpitazioni di un mondo che è diverso a ogni passo compiuto ti entrano dentro come hanno fatto, per lungo tempo, con l’Autore dei versi.
Uno struggente canto d’amore, libero e spontaneo, senza calcoli o mire secondarie. Diretto e pungente come il vento in alta quota, tonante sulle creste dei monti ma anche silenzioso ed elegante come la neve che pian piano scende nei boschi.
La memoria che porta con sé i primi fremiti amorosi.
La memoria che rimpiange il padre, quelle braccia forti di uomo e le sue mani esperte.
“…Padre, la tua stagione sento dentro il sangue/ a quel tempo appartengo/ a quei sentieri di sassi bianchi e aspri/ e tu fugavi l’ombre nel cammino/ la tua mano mi guida tra i dirupi…“
Quel padre ora assente, oggi solo ricordo e dolce richiamo della mente.
La poesia di Piersanti non è però triste, sconsolata. È giusta. Di quel giusto che si impara solo col tempo, senza rinnegare il passato ma aprendo gli occhi per proseguire il cammino.
“…Oggi m’aggiro solo nel freddo bianco/ cerco le orme antiche di chi m’ha retto e forte sostenuto/ nel turbine che scende giù al mio fosso/ cerco le ombre che m’hanno guidato/ ma la neve è deserta/ sono lontane…“
Il viaggio di Piersanti è lungo, è uno sfogliar di pagine di una lunga e immaginaria confessione.
È il percorso del viandante ignaro eppure speranzoso.
Il viaggio di “…chi non sa dove andare meglio cammina/ nel buio che s’annuncia conviene perdersi/ i sentieri tra i campi sono infiniti/ la fonte sta dovunque o in nessun luogo…“.