Milano – Italia, surreale ma vera: intervista a Paolo Zardi su Tutto male finché dura
Tutto male finché dura è il primo romanzo con la Feltrinelli (collana I Narratori) per Paolo Zardi, scrittore padovano sempre più interessante, candidato nel 2015 al Premio Strega con il romanzo XXI Secolo. Per chi ha già letto qualcosa di lui, tipo i racconti (qui è possibile leggere L’ultima sigaretta), tutti usciti con la Neo. Edizioni, come alcuni suoi romanzi, è il solito Zardi: bravissimo a scavare nei vizi e nelle virtù (poche) della media borghesia.
Tutto male finché dura è ambientato a Milano, Italia, ai tempi nostri, con protagonista un goffo imbroglione che sembra avere i minuti contati. Ci racconterà, in un surreale flashback, la sua tragica storia e capiremo perché è finito così.
Per quale motivi concatenati questo improvvisato cavadenti deve 70.000 euro a un usuraio? Come è riuscito a incasinare la sua banale vita, passando da moglie e due figlie in un normale appartamento a un’esistenza solitaria, fatta di raggiri e sesso in chat? E l’ex moglie, tanto precisa, come l’ha incontrata? … come l’ha persa? Potrebbe pure riconquistarla se … Tante domande e un accavallarsi di personaggi strani alle prese con avvenimenti tanto assurdi da sembrare veri. E lo sono, come l’epilogo esplosivo in un supermercato, tra vip/politicanti a una premiazione di un concorso fotografico con banchetto finale.
Paolo Zardi riesce a conquistare il lettore con questa storia che sembra scritta per un Marco Ferreri di oggi, in una Milano bevuta, capitale immorale d’Italia. Cita Charles Dickens all’inizio e nel libro stesso, e ci fa capire quanto ancora pesino le differenze di classe, le divisioni dei quartieri delle città. Anche con la presenza immateriale del web, anzi, ancora di più.
Del libro e di tutto questo ne abbiamo parlato con l’autore.
Come è nato Tutto male finché dura?
Come accade per la maggior parte dei libri, anche Tutto male finché dura nasce dall’incontro e dallo scontro di tensioni, idee, desideri, repulsioni. Tra il 2014 e il 2016, che sono i due anni durante i quali ho immaginato, progettato, scritto e sistemato questo libro, sono stato travolto dall’esperienza del Premio Strega con il romanzo XXI Secolo, uscito nel 2015 per la casa editrice Neo.: per la prima volta, un mio libro è stato messo sotto le luci dei riflettori. Questa esperienza si è intersecata a un periodo lavorativo terribile, soprattutto dal punto di vista umano, quando sono stato costretto a comprendere sulla mia pelle il significato della parola “fallimento”.
Entrambe le situazioni – il buon riscontro del libro, il peso del lavoro – mi hanno spinto verso un’unica direzione, che è quella che poi ha portato a Tutto male finché dura. In particolare, il buon riscontro di XXI Secolo mi ha costretto a pormi la più importante delle domande che uno scrittore si deve porre, a un certo punto del suo percorso letterario: per chi sto scrivendo? Se fino a quel momento non avevo dubbi di essere io, il principale destinatario dei miei libri, dopo lo Strega ho avvertito il piccolo peso dell’aspettativa, e la forma vaga di una classificazione nella quale avrei potuto essere inserito. Avrei quindi potuto replicare la formula di XXI Secolo, sapendo che avrebbe funzionato, ma mi è stato chiaro che così avrei perso l’unica motivazione che mi spinge a scrivere, e cioè la sensazione di fare esattamente quello che piace a me. Ho deciso allora di scrivere senza pensare alle conseguenze, con l’obiettivo sotterraneo di minare le basi di quello che avevo fatto fino a quel momento. Ho avvertito la spinta a dissacrare il mio modo di scrivere e la compostezza dei miei personaggi, a rinunciare alla chiarezza con la quale mettevo in scena i temi che amo, una certa tendenza al lirismo, la mia ricerca della commozione. È così che è nato Tutto male finché dura. Volevo fosse un libro del quale avrei potuto vergognarmi di fronte a una vecchia zia.
Come titolo del romanzo ti sembra centrato? Lo descrive?
Ho imparato che il titolo di un libro è l’ultima cosa a cui si deve pensare. Da un certo punto di vista, il titolo e la copertina sono il biglietto da visita con il quale l’autore si presenta: sono la sua faccia, i suoi vestiti. In La vera vita di Sebastian Knight, uno dei personaggi di Nabokov, la fidanzata proprio di Knight, scrittore deceduto, afferma che un buon titolo non dovrebbe parlare del contenuto ma del colore del romanzo.
Gli editori pensano che debba attirare un lettore che entra per caso in libreria; che si imprima nella memoria. Da lettore, e lo dico in tutta onestà, non sono convinto che i titoli siano poi così importanti: gli unici due romanzi che ho scelto sulla base del titolo sono Il gioco delle perle di vetro di Herman Hesse e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, ma avevo 16 anni. Forse anche Sostiene Pereira, ed ero già più grande. Ma non ho letto La solitudine dei numeri primi, ad esempio, nonostante la bellezza oggettiva del suo titolo.
Ma al di là di queste considerazioni, un titolo andava trovato. Durante i mesi di scrittura oscillavo tra Merdaman (che è ancora il nome della cartella del mio pc che contiene il romanzo) e Le città divise: il primo improponibile, il secondo più adatto a un saggio (che è poi l’uso che se ne farà dentro al romanzo). Mi ero anche lanciato in una fase di brainstorming e i più divertenti mi erano venuti una sera in cui, per lavoro, avevo mangiato (e bevuto) da solo in un simpatico locale di Vimercate. Ne erano usciti parecchi, tra i quali:
- Una simpatica canaglia
- Il Barone di Munchausen
- Storia d’amore, bombe e altre sciocchezze
- Dai diamanti non nasce nulla
- Lucia, Eva Lovia e altre creature misteriose
- Il dentista dei poveri
- e quello che rimane il mio preferito: Bergoglio e pregiudizio
Alla fine, il nome è uscito da un costruttivo confronto con l’editore. Cercavamo qualcosa di paradossale, che facesse sorridere e che dicesse qualcosa sul libro, sul suo mood, sul suo essere vagamente surreale.
Tutto male finché dura si apre con una citazione di Dickens, che poi ritroveremo nel romanzo stesso? Perché questa citazione? … che sembra una dichiarazione d’intenti.
Da qualche decennio a questa parte si è sviluppato un atteggiamento di sufficienza verso la trama, probabilmente come reazione alla cultura del romanzo del diciottesimo secolo. Leggendo Dickens, però, si avverte la sensazione fortissima che l’intreccio, le coincidenze che rendono unica una storia, l’inesorabile convergenza di vite lontane verso un unico punto, i colpi di scena preparati con cura costituiscano un ingrediente fondamentale di ogni racconto. Sono capaci di organizzare la realtà, di darle un senso. Dickens è un maestro in questo (sebbene non sia il migliore in assoluto) e mi piaceva l’idea di recuperare, nel mio piccolo, quella tradizione.
Ma non c’è solo questo. Un po’ di tempo fa avevo trovato un brano di Engels in cui rifletteva sulla crescita delle città, che raramente viene guidata da un progetto consapevole: la città come organismo dotato di una vita propria, di un’intelligenza peculiare. E Dickens aveva portato questa visione fino alle sue estreme conseguenze: un’entità che, come la divina Provvidenza, organizza il Destino delle persone. In Casa desolata, ad esempio, esseri umani che non hanno nulla in comune – da ricche nobildonne a orfani nullatenenti – vengono letteralmente spinti tra le braccia gli uni degli altri dalle strade che si incrociano, dalla disposizione geografica dei quartieri. La città di Tutto male finché dura assomiglia senza dubbio alla Londra di Dickens: vasta, variegata, e con curiose qualità topografiche che finiscono per generare la storia stessa.
Tutto male finché dura si svolge nell’Italia del nord oggi. Perché questo ritorno in Italia con un tuo romanzo? Con una storia attuale, anche se surreale …
I luoghi sono funzionali alle storie che si vogliono raccontare; spesso succede, almeno a me, che una storia coltivata a lungo si concretizzi solo nel momento in cui si capisce dove si deve svolgere. Credo che Milano abbia le caratteristiche giuste per parlare di una città con grosse differenze tra periferie proletarie e il centro borghese. Dalle parti di Porta Venezia, non distante da Piazza San Babila, c’è una villa nel cui giardino passeggiano dei fenicotteri: a pochi chilometri di distanza, verso Lorenteggio, o verso Cologno, ci sono palazzi dove centinaia di famiglie vivono in grossi alveari che la sera vibrano della vita di queste persone – un brusio costante e indistinto. Questa differenza, questo gradiente, è l’energia che manda avanti la città: da un lato persone che cercano di spostarsi verso il centro, e dall’altro persone che tenacemente difendono i loro privilegi, e si oppongono a questo flusso. Le storie parlano quasi sempre di conflitti, di scontri. L’Italia di oggi è una miniera d’oro, da questo punto di vista.
Leggendolo ho pensato sarebbe stato un ottimo soggetto per un film di Marco Ferreri, ma purtroppo non c’è più. Tu che ne pensi? Lo vedresti trasportato al cinema Tutto male finché dura? Con quale regista e quali attori?
Sì, credo che questo romanzo abbia delle “qualità cinematografiche”. Mentre lo scrivevo avevo in mente uno dei più grandi attori italiani di sempre, Ugo Tognazzi – che, se non ricordo male, era l’alter ego proprio di Ferreri. Se penso a La donna scimmia, ritrovo molte delle scelte che ho fatto per questo libro. Ma sono morti entrambi.
Per miei limiti, non saprei indicare un regista italiano contemporaneo perfetto per una trasposizione: dovrebbe saper far ridere ed essere, allo stesso tempo, crudelmente lucido. Sugli attori, invece, punterei su Valerio Mastrandrea per il personaggio principale, Valérie Benguigui (che purtroppo è mancata da poco) per Marta, Lisa Loring, la Mercoledì della prima famiglia Addams, nel ruolo di Lucia e la cantante Margherita Vicario nella parte di Elisa, purché metta su qualche chilo in più. E per Fabio, bisognerebbe trovare un attore bravissimo nell’interpretare persone noiose.
Verso la fine c’è una presentazione di un libro dove accadono cose tra il buffo e il patetico, con il protagonista che regala dei fiori all’autore del libro presentato. Ti sono mai successe cose così?
Nel corso degli ultimi anni ho fatto molte presentazioni, in librerie, teatri, giardini, birrerie, castelli, spiagge, scuole, circoli, chiese sconsacrate, ristoranti… All’inizio, avevo la sensazione di essere a un esame universitario, ed ero convinto che il mio compito fosse quello di rispondere nel modo più preciso e scrupoloso alle domande che mi venivano poste; poi ho iniziato a pensare di assomigliare a un venditore di pentole che doveva convincere il pubblico ad acquistare il mio prodotto; ma adesso so che le presentazioni sono semplicemente una bella occasione per parlare di libri, letteratura, politica, estetica, musica e storie personali. Una volta mi annoiavo, alle mie presentazioni; ora invece mi diverto. Fortunatamente, non mi sono mai successe cose troppo strane. Una volta un tizio mi ha chiesto di riscrivergli la dedica perché non si capiva cosa avessi scritto. Una signora mi ha chiesto se Tutto male finché dura parla di bambini. Qualcuno mi ha portato un suo libro da leggere. Ho trovato tante belle persone, ma nessuna mi ha regalato un mazzo di fiori.
Progetti futuri?
Amo scrivere. È l’unico hobby che ho. Non posso dedicargli le attenzioni che vorrei ma passo tutto il tempo libero a pensare ai libri – ai miei e a quelli degli altri. A maggio ho completato un romanzo che ora è in lettura presso una casa editrice; a dicembre è uscita una graphic novel della quale ho scritto il soggetto; tra due mesi, a metà di marzo, uscirà una mia raccolta di racconti con la mia casa editrice preferita; e ora sto lavorando a un nuovo romanzo che si svolgerà in un futuro prossimo, con atmosfere molto distanti da XXI Secolo. Sono continuamente divorato dalla sensazione di avere ancora poco tempo, davanti – ho iniziato a scrivere tardi, e credo di dover recuperare. A volte mi domando se dal punto di vista editoriale queste uscite così vicine finiscano per essere controproducenti, ma è un dubbio che dura poco. Credo che i libri che uno scrive siano stelle di una costellazione: non è importante il singolo romanzo, o la singola raccolta, ma il disegno complessivo che ne viene fuori. Tra vent’anni mi guarderò indietro e spero di essere soddisfatto di quanto ho fatto.