Nero Lucano, di Piera Carlomagno
Tre passi e siamo già nella storia, immersi, ipnotizzati dal ticchettio del tacco dodici di “Donna Leda” che avanza per stazioni deserte e stradine che s’incastrano tra gli stiletti e nei pensieri in quella terra che la respinge come fosse un corpo estraneo. Leda torna giù in Basilicata ogni volta come cucciolo fedele, appena qualche giorno dopo il marito. Il mal di vita che la prende ogni volta che deve spingersi su un treno per raggiungere quella terra bruciante, ostile e dura come la pietra che le rende forma, le risale come un rigurgito, deve sforzarsi a resistere. Deve sempre compiere uno sforzo che sembra sempre più grande di lei.
Nero Lucano di Piera Carlomagno (edizioni Solferino) non ha una sola esitazione: ci afferra così, dalle spalle, e poi ci spinge senza mezzi termini nella storia sin dalla prime pagine, diventando sempre più cupo, sempre più avvolgente.
Questa volta donna Leda non potrà riversare nessuna frustrazione sul consorte, perché dell’ingegnere Brando Carbone e del suo arrivo in Basilicata non c’è traccia. La varesina Leda, come se si trovasse nell’antro di una belva antica ammantata di superstizione e diffidenza, cercherà di sciogliere fili di una matassa intricata cercando di levarsi di dosso il sospetto che piomba su di lei quando il corpo sfatto del marito diverrà materia da decifrare per l’anatomopatologa Viola Guarino. La scena del crimine è devastante e crudele, racchiusa nella testa dell’uomo spaccata in due da una evidente accettata, ma soprattutto da una palese e abominevole rabbia che costringe gli inquirenti a indagare e frugare nella sua vita, a scandagliarne gli spostamenti, a scostare gli occhi dalla moglie alla ineccepibile segretaria sempre al suo fianco e ora improvvisamente priva di risposte su orari che non coincidono più e luoghi che sembrano svuotati di un senso.
Tocca rimettere insieme pezzi, ricostruire, sfruttare ogni dettaglio, e Viola Guarino lo sa fare. Viola sa mettere in relazione ogni elemento con l’eco di un ambiente che racconta a chi sa ascoltare, che nasconde, confonde tra roccia e vento i sentori di relazioni ambigue e che intanto, come se emergesse dalla terra, restituisce un nuovo cadavere ucciso esattamene come il primo.
L’ingarbugliata matassa deve essere studiata per non tirare via i fili sbagliati e ritrovarsi strangolati dai propri errori. Viola combatterà coi suoi ricordi, danzando tra le parole antiche come lunghe nerissime gonne che offuscano la vista senza mai cancellare del tutto un passato che non è mai passato veramente. “I detti antichi” che non sbagliano mai, le cose che ti restano addosso dei racconti da bambina… ogni cosa sembra tornare utile per scandagliare l’animo umano vincendo la paura di guardare oltre l’antro in cui s’acquieta la coscienza prima di venire fuori a restituire morsi, cercando di saziare la sua fame.
Sono tutti colpevoli e tutti innocenti fino alla fine; le donne accavallano le gambe ognuna con la sua verità sussurrata a mezza bocca, la serranda si chiude sulla volontà di una moglie fedele fino a un punto di non ritorno, il vento prende tutte le colpe e spariglia le carte. L’abilità della scrittura “magica” dell’autrice si rende preziosa e diventa tanto perfetta da rendere carne viva ogni parola che scolpisce uomini e donne, umani, peccatori come tanti, nella misura della propria cupa dimensione, ciascuno alla ricerca della propria giusta verità.