Quel blu di Genova | Intervista con Michele Mozzati
Quel blu di Genova di Michele Mozzati, uscito in piena estate presso La Nave di Teseo, è un libro divertente e molto appassionante. Michele Mozzati è il Michele del duo Gino e Michele, umoristi milanesi dalle molteplici attività (da Smemoranda a Zelig, solo per dirne due). Ogni tanto si ritagliano degli spazi da autori di romanzi in solitaria, come nel caso di questo Quel blu di Genova, che come si può ben capire fa riferimento ai mitici blue jeans.
Mozzati racconta in modo molto bello, tra il romantico e lo storico, come arrivò il primo carico di queste stoffe nella New York dell’Ottocento dai fratelli Strauss, che le volevano usare per coprire i carichi delle navi, e come successe che uno di loro, Levi Strauss, pensò bene di usarne una parte per fare pantaloni per i cercatori d’oro della California.
A dire il vero la storia (del libro e dei jeans), nasce ancora prima, quando il milanese Ernesto e il napoletano Cesco, scappano insieme da Milano dopo la Rivolta di Milano del febbraio 1853 per unire l’Italia e farne una Repubblica. Arrivano a Genova dove incontrano Cielo, la figlia di un armatore, che protegge i rivoltosi in fuga. Ne nasce una bella storia, che ricorda Jules e Jim di Truffaut, e che finirà proprio negli States, dove si incontrano con Levi Strauss.
Il romanzo è ben strutturato, ha riferimenti storici precisi, dalle rivolte per l’Unità d’Italia al contesto socioeconomico degli Usa ottocenteschi, e procede per flashback illuminanti senza perdere di vista l’ironia. Un inno alla libertà attraverso i blue jeans, in modo per niente banale e con molte idee divertenti. Mi è piaciuto un sacco, così tanto dal chiedere l’intervista a Michele Mozzati.
Come è nato Quel blu di Genova?
È nato, come tutti i romanzi, da un nulla apparente che però hai dentro da un po’. E che in realtà non è un nulla, è qualcosa che c’è e che spinge per essere raccontata. Quindi per un po’ ti affiora a pezzetti — un mattino appena sveglio, un pomeriggio mentre torni a casa in scooter, una sera mentre ti appisoli sulla poltrona o sei in giro per locali a bere con gli amici — fino a quando non ti decidi a scrivere quelle cose che altrimenti col tempo si stancano di stimolarti, e se ne vanno da un altro o da un’altra…
Quel blu di Genova poi è fatto di tante cose diverse e concatenate (soprattutto nella mia testa) che mi hanno portato a raccontare una storia insolita, a suo modo particolare.
Molto bello leggere questa storia attraverso i secoli, tra mito e leggenda, con le rivolte per l’Unità d’Italia e la “nascita” dei blue jeans come collante. Come ti sei documentato a livello storico?
Ecco, come ti dicevo: in realtà non è una storia sola, sono più storie. Legate a luoghi ed epoche diverse. Si parte dalla Milano del 1853, anzi, prima ancora, da quella delle Cinque Giornate del 1848, all’epopea della Corsa all’oro degli stessi anni, ma in California. In mezzo c’è un Io Narrante nostro contemporaneo, che ci racconta l’America che ha sognato negli anni Sessanta e Settanta. Un bel casino, dirai. Forse, ma è un modo per divertirti a cercare di portare a spasso il lettore tra un paio di jeans, il Castello Sforzesco e il “Vesuvio”, uno dei locali preferiti da Hemingway. E poi c’è il continuo entra e esci tra vero e verosimile.
Nel libro citi Hemingway e Ferlinghetti, la beat generation, Mary Shelley… Ti hanno ispirato per scrivere questo romanzo? Altri nomi che lo hanno fatto?
Sai che è difficile dire chi mi ha ispirato in assoluto? Certamente chi hai citato tu, ma anche Francesco De Gregori del suo album Buffalo Bill, o Guccini, citato nel libro con La bambina portoghese. I racconti partecipati di mio papà, maestro elementare, sui piccoli grandi eroi del Risorgimento. Ci sono i Kennedy, Kerouac, Mazzini… A elencare così, tutto pare un gran minestrone. Spero sia qualcosa di più.
L’intreccio è molto cinematografico, quindi la domanda sorge spontanea: c’è già l’idea di trasformare Quel blu di Genova in un film? Se non c’è, ti piacerebbe … quale regista e quali attori vorresti?
Quel blu di Genova è soprattutto un “libro a strappi”, per me. Che nel cinema possono essere dei flashback. O dei fermo-immagine; degli zoom a ingrandire, o il loro contrario, partendo da un particolare, viva via a rimpicciolire fino a essere un puntino nell’universo. Ma se mi dicessero — nonostante la difficoltà oggettiva dovuta ai salti di tempo e di luogo — che qualcuno vuole raccontare questa storia per immagini, per me andrebbe benissimo. Amo il cinema. Amo anche la buona fiction seriale, destinata al piccolo schermo. Registi… ne conosco personalmente troppi, e tutti bravi, per sceglierne uno solo. La stessa cosa vale per gli attori.
“Tutte le storie sono storie d’amore”, ricordi spesso nel libro. In che senso? Forse più di uno…
“Tutte le storie sono storie d’amore.”, col punto finale e definitivo al termine della frase, è l’incipit folgorante (perché quasi ovvio, all’apparenza, ma non lo è per nulla!) di un romanzo di formazione che amo e ho amato molto: Eureka street, di Robert McLiam Wilson, autore che ha scritto poco, ma benissimo. Qualsiasi cosa che facciamo, qualsiasi piccola storia che diventa Storia, è in fondo mossa dall’amore (o dal suo opposto, che è la stessa forma di vita al contrario). E non parlo di Amore inteso come Luce, come Trascendente o Divino. Parlo proprio di amore della quotidianità, quello semplice che muove ogni azione della nostra esistenza. Essenziale come i blue jeans…