Recensione: Che tu sia per me il coltello, di David Grossman
Un gesto. Uno solo. E tutto cambia. Pur restando, all’apparenza, esattamente uguale.
Qualcuno diventa un coltello. E quel coltello, pian piano, si trasforma in penna: quella con la quale dapprima si scrivono le regole di una corrispondenza, poi si tenta inevitabilmente di infrangerle. Perché è un invito fatto senza tener conto del potere della fantasia, quello di Yair a Myriam.
L’uomo la vede per la prima volta ad una festa; la osserva da lontano e, colpito da un gesto col quale sembra volersi isolare dalla situazione, le invia una missiva con la quale le propone una quotidianità fatta di sole parole. Le stesse regalate al lettore: lettere fitte d’inchiostro che restituiscono, poco alla volta, la dimensione di un rapporto epistolare che cresce prepotentemente, indipendentemente dalla volontà di chi lo intrattiene, quasi a dispetto delle rispettive vite, dei rispettivi compagni, dei rispettivi figli. Lettere che, laddove sembravano inizialmente rappresentare un gioco piccolo, ed innocuo, fatto di lusinghe e tempi da riempire, si trasformano bene presto in altro: una reciproca quanto impalpabile richiesta d’aiuto.
È davvero sorprendente, Myriam, solo ora mi rendo conto di quanto sia sorprendente la tua decisione (una decisione perentoria, ti immagino con le labbra e il mento in fuori!) di gettare le motivazioni logiche nel pozzo più profondo di Beit-Zeit e di porre la tua anima nel palmo della mia mano. La mia mano che non conosci, e che ora trema un poco per la grande responsabilità che si è assunta.
Non occorrono narratori per una storia così: solo i protagonisti di alcune inspiegabili dinamiche possono raccontarne la portata devastante e allo stesso tempo salvifica. David Grossman lo sa; e lascia parlare i suoi personaggi per regalare una naturalezza nel dire che diventa disarmante.
Così come disarmante, in Che tu sia per me il coltello, è la densità. Non solo stilistica – i pensieri di Yair seguono il suo flusso di coscienza in maniera tanto fedele da dare l’impressione, soprattutto all’inizio, di dover essere rincorsi – , ma anche emotiva. E chi legge, chi ha avuto la pazienza , e la fortuna, di non abbandonare il libro alle prime pagine a causa dello stile di cui sopra, si ritrova catapultato nella mente di qualcun altro, nei suoi pensieri, a tratti, persino nella sua arroganza. In ciò che prova. E che non potrebbe provare, o scrivere, altrimenti.
Immedesimazione del lettore?
Totale.
In qualche maniera, Yair lo “risucchia”. Lo accompagna con le sue domande – Cosa ne farò ora di questa nuova esistenza che non mi vuole? – verso le risposte di Myriam, che riusciamo solo ad intravedere. Fino al momento in cui quelle domande non vengono copiate su un quaderno per fare in modo che non si perdano. E che non perdano di significato.
Fino al momento in cui la realtà spinge contro il vetro di una finestra di casa.
E lo frantuma.
Dando prova di una tangibilità di cui testimonianza, fino a poco prima, erano solo dei fogli di carta.
Risultato?
“Un romanzo – leggiamo dalla quarta di copertina – ‘impudico’, che mostra quanta strada bisogna percorrere per vincere la paura e arrivare a toccare liberamente, con pienezza, l’anima (e il corpo) di un altro essere umano”.
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