Recensione: Confini incerti, di Agi Berta
È una meraviglia quando la storia non ti viene raccontata per imprese vittoriose e scelte tattiche, ma attraverso la vita umana, i pensieri e i destini di persone vere che alla storia stessa hanno partecipato. Così Agi Berta, ribattezzata “l’ungherese di Napoli” da Sergio Lambiase sul Corriere del Mezzogiorno, nel suo Confini incerti (edizioni Uroboros) ci racconta della sua famiglia, intrecciando la narrazione alle importanti vicende che hanno cambiato profondamente il volto del suo paese, l’Ungheria, dal 1848 al 1952.
Ci si ritrova tra le mani un libro non solo scritto con uno stile impeccabile, ma pieno di umorismo e aneddoti, ricordi e documenti che tradizionalmente sfuggono al retaggio degli anni, così come di dolorose memorie. Soprattutto, è un libro pieno d’amore, in tutti i modi attraverso cui questo può manifestarsi: tanto l’amore tra amici, genitori e figli, fratelli e amanti, quanto quello per una causa o un ideale; tanto l’amore romantico fatto di speranza e sogni quanto quello di una madre che deve allontanare da sé il proprio figlio per salvare il resto della famiglia da possibili e pericolosi sospetti in una situazione politica difficile.
Non ci vuole molto per rendersi conto che la realtà storica in cui viviamo – o che per lo meno abbiamo vissuto negli ultimi decenni – è di fatto un privilegio dei tempi: guerre e miseria sono ben lungi dall’essere realtà estinte, anche se giochiamo a ricordarcene giusto per la durata di un telegiornale. Di fatto la situazione anomala è forse quella pacifica e improntata sullo stato di diritto che da quasi un secolo si sta cercando di affermare con sempre maggior decisione ma con altrettanta disillusione, prima con i falliti tentativi della Società delle nazioni, poi con la nascita di realtà dimostratesi ben più durature ma, ahimè, in qualche modo ancora traballanti, come l’Unione europea. Ecco che allora il romanzo di Agi Berta ci accompagna alla riscoperta di quell’incertezza della vita (e non solo dei confini geografici) che ci hanno insegnato a ignorare e scansare, forti dell’idea – piuttosto anacronistica e infantile – che il futuro non possa essere portatore se non di progresso e sviluppo, benessere e fortuna. La realtà è che l’unica cosa veramente certa, nella vita, è il cambiamento.
La realtà e il realismo diventano allora gli aspetti più affascinanti del suo scrivere, perché non si può fare a meno di provare, a poco a poco, una profonda empatia con la verità che ciascuno dei suoi personaggi si porta dentro.
Non dimenticherò la prima battaglia finché vivrò. Il nemico stava sull’altra sponda del fiume, abbastanza lontano da distinguere la fisionomia dei singoli soldati. Si muovevano prevalentemente in gruppi. Alcuni stavano anche da soli, nascosti da un albero o dietro piccole collinette rialzate artificiosamente sul terreno pianeggiante. Ho sempre mirato nei raggruppamenti. Mi sembrava più facile colpire un drappello militare, che almeno grammaticalmente era un concetto astratto, non un uomo. Il singolo soldato era e una persona. E io non ho mai sparato contro un essere umano che potessi identificare come tale. Solo così riuscivo a racimolare il coraggio sufficiente per premere il grilletto. Avevo sparato, più di una volta, ma non ero mai stato costretto a guardare negli occhi chi stava sull’altra sponda, chi avrei dovuto considerare un nemico. Una sola volta mi sono trovato faccia a faccia con un rumeno. Mi ero allontanato per i miei bisogni. Ormai nessuno badava più a queste cose, ma per me l’assenza di qualsiasi intimità elementare era penosissima, e nonostante i divieti mi allontanai dal mio plotone. Fu così che vidi il rumeno. Stava con i pantaloni abbassati, accovacciato tra i cespugli, l’arma gettata a terra. Io avevo il fucile in mano, ma non sopportai la vista di quell’uomo inerme e gli girai le spalle. Per un po’ aspettai che mi sparasse, ma non successe niente.
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