Recensione: La base atomica, di Halldór Laxness
La base atomica è uno di quei libri che sfuggono a ogni etichetta. Halldór Laxness, premio Nobel nel 1955, lo scrisse nel 1947, anticipando la realtà con occhio e acume quasi profetici. Il romanzo fu censurato all’epoca della guerra fredda per via di una frettolosa analisi politica figlia di quei tempi, ma viene riscoperto in Italia grazie ai tipi di Iperborea.
Nel testo la prima cosa a sorprendere è l’attualità e la freschezza del linguaggio, per tacere dei molteplici livelli di lettura possibili. Quando inizi a parlarne, cominci a pensarlo come un romanzo di denuncia sociale, poiché si parla di un popolo al margine tra le inconsuetudini legate all’arrembante modernità e la forza del legame col passato.
L’emancipazione fisica, morale, biologica, culturale della donna, è brillantemente affrontata incentrandola nella figura splendida e straordinariamente fragile e umana di Ugla, la protagonista. La semplicità della donna che viene dal nord, da quelle zone dell’isola in cui il tempo sembra essersi fermato, stride con l’accozzaglia di abitudini moderne e finzioni tragicomiche che affliggono gli abitanti di Reykjavík, almeno nelle persone con cui Ugla viene in contatto.
Ugla, fascinosa donna di formazione e provenienza contadina, non può che risentire del forte impatto con la vita di casa del deputato Arlánd, dove soggiornerà per un breve periodo svolgendo mansioni da cameriera. In tale contesto, non riesce a sfuggire all’acidità mai velata della moglie di Arlánd, ai (tanti) vizi e le (poche) virtù dei figli del deputato, nonché al fitto sottobosco di figli di papà, politici ondivaghi e profittatori che frequentano la famiglia.
Sua è la voce narrante, una voce intrisa di vivo umorismo quando narra certi passaggi, ma anche tesa in una malinconia senza tetto quando parla di se stessa, dei rapporti con la società che è sul bilico della definitiva trasformazione, senza però essere assolutamente pronta.
Ugla conoscerà personaggi strani, surreali, come l’organista, il quale infiorirà ogni suo intervento con una filosofia di vita pregna di poesia e di saggezza, unica in un contesto in cui spesso i protagonisti sembrano perdere l’identità e andare a spasso per strade che possono allontanarli per sempre dal vero significato dell’esistenza. Tra questi emergono anche altri, come il dio Brillantina, il poeta atomico e la prostituta Cleopatra, così tratteggiati da sembrare un assurdo riempimento, ma godibilissimi nell’insieme. Giuliano D’Amico, nella postfazione al romanzo, ne sottolinea l’aspetto surreale scrivendo: “… L’essenza dell’organista e della sua «comune» è quasi onirica (siamo sicuri che non sia solo un sogno? Del resto Ugla è l’unica a vederli e frequentarli…)”.
Il romanzo è leggibile anche sotto altri punti di analisi, come una sorta di gioco di scatole cinesi. La denuncia sociale lascia lo spazio ai richiami del passato, a cenni della tradizione islandese e al consolidamento di un’unità fondata sulla difesa della propria storia (la questione delle ossa del Prediletto, il poeta Hallgrìmmsson sepolto in terra straniera e dell’argilla danese), anche per difendere la propria terra e soprattutto il popolo dalla totale perdita d’identità.
La questione dell’accordo con gli Stati Uniti (davvero siglato nel 1946 come accordo di Keflavík) che avrebbe consentito agli americani di controllare la Germania all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, rimbalza più volte nel romanzo, a volte sotto forma di terrore per l’avvento dell’atomica a volte tirando in gioco le proteste (condivise in vita dallo stesso Autore) contro la “Vendita dell’Islanda”.
Il romanzo assume anche i contorni di una stuzzicante poesia, di un’espressione di dignità che non stupisce provenga proprio da parte di Ugla, messa di fronte a una gravidanza inattesa e forte di quei valori che solo la sua personalità semplice e genuina poteva conservare, nonostante tutto.
Ed è lei, in conclusione, ad attingere alle parole dell’organista; la sintesi del discorso dell’Autore si trova anche nel concetto dell’Islanda che continuerà a esistere, anche dopo che sarà scoppiata la bomba atomica, perché quando quest’ultima “…avrà raso al suolo le città che sono rimaste indietro rispetto all’evoluzione, sorgerà la cultura delle campagne, la terra diventerà il giardino che non è mai stata se non nei sogni e nelle poesie…”.
E allora perché non credere che, nonostante tutto, il nostro futuro sia nelle cose semplici che già ci attorniano, che abbiamo imparato a conoscere fin da piccoli, quando eravamo ingenuamente liberi di scoprire, e quando abbiamo ammirato la struggente bellezza e l’incomparabile perfezione di un fiore, simbolo di una rinascita sempre possibile?
Pingback: Recensione: La base atomica, di Halldór ...