Recensione: La carta della regina, di Giorgio Caponetti
La carta affascina, narra, intriga, testimonia.
Le carte antiche recano testimonianze che aprono scenari, rispondono a decennali domande.
Pertanto, valgono. E valendo, c’è chi farebbe carte false (e spenderebbe soldoni) pur di possederle.
La carta della regina è l’ultimo romanzo edito da Marcos y Marcos, ma è anche un documento reale legato alla storia della bisnonna di Federico II di Svevia, tale Adelasia Incisa del Vasto (anche detta Azelais o Adelaide).
Vissuta tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII, la sua notorietà è legata al documento cartaceo più antico del mondo occidentale. E su tale documento verte parte del romanzo, anche se sarebbe riduttivo limitarsi a questo.
La ricerca documenta le idee dell’autore, tal Giorgio Caponetti ex pubblicitario e allevatore di cavalli, narratore col vento in poppa. La sua è vera vena narrativa, non semplice esercizio.
Alvise Pàvari dal Canal, docente di Ippologia alla Ca’ Foscari, personaggio a tutto tondo creato dalla penna del suddetto Caponetti, è il protagonista di quest’avventura tra i profumi e le leggende della Sicilia (le cronologie mi dicono si tratti della terza. Confesso che è la prima, per me. Colmeremo col tempo anche questa lacuna).
Alvise, veneziano doc, si trasferisce in terra di Trinacria per partecipare al matrimonio dell’amata nipote Anna Rosai con il nobile Rosario Marescalchi di Brancaforte. La famiglia di Rosario, nobile decaduta e indebitata fino al collo, si trova a dover affrontare guai a ripetizione che mettono fuori causa il patriarca Ruggiero (per sempre) e il nipote Manfredi (immobilizzato su una sedia a rotelle a causa di una caduta).
Sulla tenuta di Brancaforte si allungano le mani della mafia, che rileverebbe (tramite prestanome) l’intera proprietà. L’unico modo per scongiurare la vendita all’incanto sarebbe reperire una somma pari a un milione di euro. Sarà Alvise a procurarla, grazie alle conoscenze e alle sue garanzie. Qui mi fermerei perché detesto anticipare le trame.
Il fascino discreto dell’elegante Adelaide Marescalchi detta Dedè (zia di Rosario) farà da spalla all’acume e allo spirito vivace ed essenzialmente colto dell’ippologo. Il risultato sarà un intrigante viaggio nella cultura della carta e della storia siciliana, un ponte sospeso tra passato e presente, con frequenti diramazioni e divagazioni.
La proprietà di tecnica e informazione impreziosisce il testo, anche se l’intento appare quello di viaggiare con leggerezza, tra battute non scontate e acute riflessioni. Alvise è un personaggio che delinea ben presto le proprie peculiarità: è curioso, colto, osservatore, ma anche premuroso e devoto amico.
Il romanzo parte lento, ma è solo un carburare costante, come di chi la penna sa usarla e sa cosa vuole ottenere. L’effetto è quello dilatato dei romanzi leggeri ma saporosi di cultura, di aromi e di vita. La conoscenza si evince nelle descrizioni del mondo equestre, nelle documentate scene di falconeria e nell’intrigante mondo dell’antica arte di fabbricare la carta.
La simpatia dei personaggi, poi, la fa spesso da padrona. Caponetti ne stila un elenco come nella migliore tradizione giallistica, anche se di giallo non si tratta. Come dimenticare, oltre allo stesso Alvise e la spalla Dedé, l’illogico senescente zio Ruggero, il falconiere Celòt e lo strozziere Medardo, il simpatico Toni (factotum di Ca’ Pàvari) che sembra godere nel contraddire il buon Alvise, il canaro Turi, misterioso e saggio, lo sbrindellato Aristotele Sennacheribbe, particolarissimo erudito che si diverte a maltrattare il povero Alvise nella terza parte del romanzo (uno dei personaggi che più mi ha colpito)? E l’antenata Adelasia, personaggio presentatoci attraverso memorie e voci degli altri, ma più presente di uno in carne e ossa? Il sapore del mistero, del fascino arcano della donna, la curiosità, saltano fuori in molte pagine, aggredendo l’occhio del lettore e carpendone l’attenzione, con fiumi di loquacità mai stucchevole e sentieri da scoprire alla ricerca del finale.
La leggerezza è il carattere prevalente dell’Autore (ometto il sembra essere in luogo di è, perché ne sono certo), quasi con certa perfidia egli distilla azioni e apre visuali, svelando a poco a poco con ritmo tale da farti assorbire la narrazione, affinché tu non la senta mai stancante.
E così Caponetti fa centro.
La curiosità gioca un bel ruolo, senza esaurirsi. Sfocia magari in altri interrogativi, e lasci l’ultima pagina con la sensazione di aver letto un libro piacevole, magari non indimenticabile ma di certo gustoso come il latte di mandorle, come il profumo delle zagare e i succosi frutti.
La voglia di leggerne un’altra c’è, ma quella la soddisferemo alla prossima avventura. N’est pas, Alvise?