E verrà un altro inverno, di Massimo Carlotto
Un grande romanzo sulle abitudini e la cinica indifferenza della cosiddetta brava gente della provincia italiana.
Massimo Carlotto ha raccontato più volte, attraverso i suoi romanzi noir, le nefandezza nascoste dietro il velo dell’ipocrisia soprattutto del Nordest italiano. Con E verrà un altro inverno (Rizzoli), lo scrittore padovano riesce a stupire ancora una volta come un pittore dalla maestria inimitabile.
Bruno Manera e Federica Pesenti sono una coppia ricca e apparentemente felice. Lui è un imprenditore cinquantenne ricco e di successo, vedovo della prima moglie e innamoratosi di Federica, donna di quindici anni più giovane, con cui ha deciso di andare a convivere. Federica è invece l’erede di una dinastia di imprenditori della “valle” dove dominano i maggiorenti, ovvero l’élite dei capitani d’industria che in quelle terre ha costruito un ordine basato sul lavoro duro e sui privilegi che restano appannaggio delle solite famiglie ricche e potenti.
Gli abitanti della valle non sembrano gradire la presenza di un facoltoso imprenditore di cui non perdonano le origini “cittadine”, arrivando persino a mettere in dubbio l’origine delle sue ricchezze e insinuandone l’illecicità.
Cominciano così una serie di intimidazioni nei confronti di Manera. Le autorità del posto, rappresentate dal maresciallo Piscopo, uomo gretto e ruffiano, invece di difendere l’imprenditore, alimentano le voci che questi attentati siano dovuti ai legami disonesti all’origine delle attività dell’uomo.
Manera, respinto anche dalla moglie di cui è ancora innamorato ma che mal lo sopporta, si sente sempre più accerchiato. Ad aiutarlo sembra essere rimasto solo un uomo in paese: Manlio Giavazzi, un vigilante dalla vita sfortunata e con la strana passione di produrre marron glacé. Giavazzi dice di voler risolvere la cosa tra “paesani” e cerca di manovrare tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Quando, a un certo punto, la situazione precipita e sfugge di mano…
Gli eventi si susseguono con una serie di colpi di scena solo apparentemente casuali. In realtà, che piaccia o no, sono ancora una volta loro, i maggiorenti, a decidere il destino degli abitanti della valle.
Massimo Carlotto riesce di nuovo a strappare la maschera dell’ipocrisia e svelare il vero volto marcio di un imprecisato settentrione d’Italia, dove l’amicizia diventa vincolo di favori, l’amore lascia il posto all’arrivismo e il legame tra conterranei altro non è che un patto di omertà come nei peggiori clan malavitosi.
Nota di merito va alla creazione dei personaggi che animano la storia. Uno su tutti, Manlio Giavazzi: un uomo cupo divorato dal dolore per la perdita prematura del figlio di cui si sente colpevole e che è capace, grazie alla sagacia dell’autore, di passare da oscuro protagonista a semplice comparsa nello sviluppo della trama.
Protagonista vero del romanzo è tuttavia l’ambientazione in cui svolgono i fatti, quel luogo, la valle, in cui si possono riconoscere tanti piccoli e operosi comuni del nord Italia e quella famiglie, i maggiorenti, il cui nome compare a caratteri cubitali sui tetti delle aziende e che si arrogano il diritto di decidere della vita e del destino delle persone che vivono nel territorio.
L’autore non fa altro che sollevare un coperchio su ciò che tanti sanno ma non dicono, o non hanno il coraggio di ammettere: la doppia morale, l’opportunismo, la cattiveria, la falsa solidarietà, il voler agire da parte di alcune persone in nome di un cosiddetto “bene comune” che invece nasconde come vera motivazione un cinico egoismo.
La verità scomoda che Carlotto pone sotto gli occhi del lettore è questa: gli inganni e la doppia vita sono perpetrati proprio da quella che ama definirsi “la brava gente”, sovvertendo così la logica del poliziesco e mostrando senza reticenza la malvagità e l’odio delle persone che abbiamo accanto ogni giorno, finendo così per spingere noi stessi a domandarci chi siamo veramente.